L’assetto dei rapporti tra Stato ed amministrati, e la concezione che lo Stato ha di se stesso, si vede da tante piccole cose, ad esempio da una normetta processuale che qualche tempo fa dispose il raddoppio del "contributo unificato" (quello versato a copertura delle spese di giustizia da chi formula una domanda di tutela giurisdizionale), a carico del soggetto che - avendo impugnato una sentenza in appello o in Cassazione - è poi risultato soccombente.
Si tratta di una disposizione che ha una funzione dissuasiva rispetto alla proposizione di impugnazioni processuali, dal profilo larvatamente sanzionatorio, che presta tuttavia il fianco a numerose critiche.
Tra queste, in primo luogo, il suo carattere meccanico: un’impugnazione, solo perché non coronata da successo, non diventa per questo motivo pretestuosa, temeraria, sintomatica di un “abuso del processo”. Se si voleva introdurre uno strumento dissuasivo nei confronti di impugnazioni dilatorie o strumentali, si doveva attribuire al giudice uno specifico potere di accertarlo, come peraltro accade con la condanna alle spese processuali e alle ulteriori somme previste dall’art. 96 cpc. Altrimenti, resta la sensazione di un ostacolo irragionevole al diritto alla difesa (art. 24 Cost.).
In secondo luogo, atteso che la giurisprudenza (Cass. a sez. unite, n. 9930/2014; Corte Cost., n. 120/2016) attribuisce anche al contributo unificato “raddoppiato” natura tributaria, di ristoro dei costi sostenuti per il funzionamento della macchina giudiziaria, non si vede perché correlare l’importo da pagare all’esito dell’iniziativa: un processo non costa di più soltanto perché chi ha proposto la domanda se l’è vista respingere. Anche in caso di vittoria in giudizio il costo sarebbe infatti identico.
La verità è che il Ministero e l’autorità giudiziaria (per le sezioni unite della Cassazione “la finalità deflattiva e sanzionatoria della nuova norma non vale certamente a modificarne la sostanziale natura di tributo”) non si avvedono della contraddittorietà delle loro affermazioni: se il “raddoppio” del contributo ha natura tributaria, cioè serve istituzionalmente a procurare risorse all’ente pubblico, non può al tempo stesso avere una finalità sanzionatoria; se invece si tratta di una sanzione, questa non serve a procurare risorse ma a dissuadere dal porre in essere un certo comportamento.
L’aspetto più paradossale della vicenda è però un altro: ovvero la presunta inapplicabilità del raddoppio alle Pubbliche Amministrazioni che stanno in giudizio (ad esempio, l’Agenzia delle Entrate che, soccombente in primo grado, ricorre in appello). Per il Ministero della Giustizia e la Corte di Cassazione, lo Stato e le PA non sarebbero tenute a versare imposte o tasse che gravano sul processo, per la ragione che lo Stato verrebbe ad essere al tempo stesso debitore e creditore di se stesso.
Ora, a parte che se questo fosse vero non si capirebbe allora il senso di numerosissimi istituti, dalle ritenute dirette irpef sui dipendenti statali a quelle sugli interessi dei titoli di Stato, dall’assoggettamento ad Irap delle Pubbliche Amministrazioni all’applicabilità dell’Iva su prestazioni rese da enti pubblici, e così via, la posizione in questione sembra un residuato dell’assolutismo, in cui lo Stato era un monoblocco e non un ente articolato che svolge funzioni diversificate corrispondenti alla divisione dei poteri.
Lo Stato che rende giustizia, e svolge una funzione giurisdizionale i cui costi devono essere coperti almeno pro quota dalle parti in causa, non è identificabile con la Pubblica Amministrazione che sta in giudizio. Altrimenti dovremmo anche dire che lo Stato giudica se stesso, rinnegare la divisione dei poteri e l’indipendenza della magistratura, nonché le scelte fatte nel XIX secolo sulla giustiziabilità degli atti amministrativi, sulla creazione del giudice amministrativo (Consiglio di Stato e TAR), sulla natura giurisdizionale delle commissioni tributarie, e altro ancora.
E poi, soprattutto, se la funzione del raddoppio del contributo unificato è dissuasiva, onde evitare impugnazioni strumentali, dilatorie e infondate, non si vede perché la stessa non dovrebbe operare - direi, a maggior ragione - nei riguardi della Pubblica Amministrazione, come utile parametro di valutazione dell’operato dei suoi funzionari, e di controllo democratico del modo in cui le risorse dei contribuenti vengono spese.
Per le nostre autorità, invece, la Pubblica Amministrazione può impugnare sentenze sfavorevoli anche in modo palesemente pretestuoso senza subire alcun pregiudizio, mentre i privati, solo perché per avventura soccombenti in appello, dovranno in ogni caso corrispondere questo asimmetrico e “mostruoso” tributo-sanzione.
Riflessioni e commenti su tassazione, politiche fiscali ed economia pubblica. A volte anche su altri temi di attualità
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