Secondo le notizie di stampa ci sarebbe un accordo di massima, tra le forze politiche del nascente governo, sulla riforma dell’Irpef in direzione di una “flat tax” (che in realtà non sarebbe più tale) corretta da una seconda aliquota sui redditi superiori a una certa soglia.
Riporta ad esempio il quotidiano “La Repubblica” del 12 maggio a pag. 6: “La ‘quasi’ flat tax, un compromesso tra le tre aliquote proposte dai grillini e l’aliquota unica brandita dalla Lega, ha due aliquote Irpef del 15 e del 20 per cento invece delle attuali cinque... ed ha un carattere ‘familiare’, cioè nel caso ci siano due partner questi pagheranno le tasse sulla somma dei rispettivi redditi e non separatamente come avviene oggi. Il piano prevede che si debba pagare con una aliquota del 15 per cento sul reddito familiare fino a 80 mila euro lordi e il 20 per cento sopra gli 80 mila”.
Il problema della progressività verrebbe risolto “introducendo una deduzione ‘discendente' per abbattere l’imponibile” pari a 3000 euro per ogni componente del nucleo fino a 35 mila euro, solo per i familiari a carico tra 35 e 50 mila euro, mentre nessuna deduzione spetterebbe superati i 50 mila euro di imponibile familiare. Inoltre, per superare il problema rappresentato dal fatto che la deduzione di 3000 euro peggiorerebbe la situazione di chi oggi, usufruendo delle detrazioni di lavoro dipendente e pensione, non paga imposta fino a circa 8000 euro di imponibile, verrebbe introdotta una clausola di salvaguardia per garantire ai contribuenti meno abbienti almeno la parità di trattamento rispetto al regime attuale.
Questa configurazione ricalca quella prevista dal disegno di legge presentato dalla Lega nella trascorsa legislatura, riguardo al quale avevo segnalato en passant qualche criticità nel mio Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax, pp. 42-43:
“... quest’ultimo [n.d.a: il disegno di legge] prevede infatti che, per i redditi superiori a 50 mila euro, si applichi l’aliquota del 15 per cento senza alcuna deduzione, in potenziale contrasto con l’esigenza di un andamento progressivo del tributo per ogni ammontare di reddito. L’imposta si comporterebbe alla stregua di quanto accade in Ucraina e in Russia, che concedono la personal allowance soltanto fino a un certo livello di reddito, poi ritirandola del tutto; per redditi superiori l’imposta avrebbe dunque un andamento sempre proporzionale, dato che l’aliquota media coinciderebbe con quella marginale.
Inoltre, la modesta soglia fissata nella suddetta proposta di legge per la deduzione personale (3000 euro), laddove spettante, non sarebbe in grado di tutelare efficacemente il minimo d’esistenza, con effetti distributivi avversi e incremento delle disuguaglianze, accentuati dalla scelta di un’aliquota assai inferiore alla minore aliquota Irpef oggi vigente (23 per cento), in parziale controtendenza rispetto ai Paesi che hanno sostituito una flat-rate tax alle precedenti imposte ad aliquote progressive: la maggior parte di essi si è infatti assestata in un intorno della più bassa aliquota marginale, mentre alcuni hanno optato per un’aliquota intermedia tra la minima e la massima.
Ancora, nella citata proposta di legge non si comprendono le ragioni per il mantenimento in vita, attraverso una clausola di salvaguardia, del vigente sistema di detrazioni per i redditi di lavoro dipendente, autonomo e pensione, finalizzato ad azzerare l’imposizione. Rimarrebbero infatti in vigore le detrazioni previste dal’art. 13 del Tuir, nonché tutte le altre deduzioni e detrazioni oggi contemplate dal testo unico, se più favorevole rispetto alla nuova imposta ad aliquota unica con deduzione pari a 3000 euro. Logica vorrebbe, invece, che venisse stabilita una soglia esente uguale per tutti, finalizzata alla detassazione dei redditi di sussistenza, almeno pari a quella oggi prevista per i redditi di lavoro dipendente”.
Rispetto alla situazione descritta, la previsione di una seconda aliquota (del 20 per cento) sui redditi familiari superiori a 80 mila euro avrebbe a prima vista l'effetto di rendere più percepibile la progressività dell’imposta, rendendola più in linea con quanto prescrive l’art. 53 secondo comma della Costituzione.
Un’imposta ad aliquote progressive per scaglioni (15 per cento fino a 80 mila euro, 20 sul reddito eccedente), applicata al reddito familiare anziché a quello individuale, presterebbe tuttavia il fianco a un diverso tipo di censure, fondate sull’art. 3 e l’art. 53 della Costituzione, cioè sul principio di uguaglianza tributaria. A parità di capacità contributiva, infatti, sarebbero trattate in modo deteriore le coppie sposate rispetto ai single e alle coppie non sposate. Il cumulo dei redditi della coppia farebbe infatti scattare, ad un certo punto, la più elevata aliquota del 20 per cento, che invece non si applicherebbe considerando i redditi dei singoli individui separatamente. Ci si troverebbe insomma in una situazione del tutto analoga a quella che portò la Corte Costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità del cd. “cumulo dei redditi”, secondo il quale ai fini della dichiarazione e del calcolo dell’imposta personale i redditi della moglie dovevano essere cumulati a quelli del marito (sentenza n. 179 del 1976).
La Corte in quell’occasione affermò tra l’altro quanto segue:
"Si sostiene, riportandosi alle disposizioni ed ai principi di cui all'art. 53 della Costituzione, che il legislatore abbia dettato le norme in questione presupponendo o presumendo: che la capacità contributiva di due persone, coniugi non separati, sia in concreto superiore a quella delle stesse due persone che non siano coniugi, a causa della riduzione delle spese generali, della collaborazione e dell'assistenza reciproca, ecc., e che il marito, come capo della famiglia abbia la materiale disponibilità dei redditi della moglie non separata; e ritenendo di dover tutelare l'esigenza che l'IRPEF, sia applicata sul reddito complessivo del soggetto, tenendosi conto della concreta attitudine di questo a concorrere alle spese pubbliche, e l'esigenza che siano impedite evasioni di imposta attraverso fittizie intestazioni di beni e fittizie attribuzioni di redditi da un coniuge a favore dell'altro.
Nella sostanza la tutela di tali esigenze merita di essere approvata. Però non si può fare a meno di osservare che le due presupposizioni o presunzioni non sono invocabili perché la convivenza dei coniugi indubbiamente influisce sulla capacità contributiva di ciascuno di essi, ma non è dimostrato né dimostrabile, anche per la grande varietà delle possibili ipotesi e delle situazioni concrete (caratterizzate, tra l'altro, dalla esistenza di figli), che in ogni caso per tale influenza si abbia un aumento della capacità contributiva dei due soggetti insieme considerati; e perché, tranne le ipotesi in cui in fatto sia il marito a poter disporre del reddito di entrambi, e quelle in cui de iure ciò avviene, di regola i redditi sono prodotti separatamente e tenuti distinti ed anche quando siano posti in comune, non è solo il marito a poterne disporre ma lo sono entrambi i coniugi, con un grado maggiore o minore di autonomia a seconda dei casi; e che, comunque, la posizione di capo famiglia attribuita al marito può apparire, sotto certi aspetti, di incerta conformità a Costituzione e ad ogni modo risulta superata dalla riforma del diritto di famiglia.
E del pari si deve rilevare che alle esigenze sopraddette con le norme in questione non è stata data adeguata e razionale tutela perché, a parte il fatto che all'applicazione dell'imposta sul reddito complessivo di entrambi i coniugi si perviene attraverso un sistema normativo che va anche contro altre disposizioni costituzionali, si è posto in essere nei confronti dei coniugi conviventi un trattamento fiscale più oneroso rispetto a quello previsto per conviventi non uniti in matrimonio (che vengono assoggettati separatamente all'imposta, pur beneficiando degli eventuali vantaggi connessi o conseguenti alla vita in comune).
Ed infine c'è da considerare che la mancata tutela egualitaria dei coniugi non è il riflesso o il correlato della esistenza di norme dettate a garanzia dell'unità familiare. Ché anzi è possibile riscontrare, anche per la normativa risultante dalla riforma tributaria, una scelta di politica legislativa che anche a non volerla ritenere in contrasto con gli interessi tutelati dall'art. 31 della Costituzione, di certo non può dirsi dettata in favore della famiglia legittima”.
Insomma, se la flat tax - cioè un’imposta ad aliquota unica con esenzione dei redditi minimi - appare tendenzialmente neutrale rispetto alla scelta dell’unità impositiva (individuo o nucleo familiare), dato che il carico fiscale complessivo non muta considerando i redditi individuali o il reddito familiare, la scelta di un’imposta ad aliquote progressive applicata al reddito familiare determinerebbe con ogni probabilità una pronuncia di incostituzionalità per violazione del principio di capacità contributiva e uguaglianza tributaria, anche perché, come faceva capolino nel brano della Corte testé riportato, ad essere trattata in modo deteriore sarebbe paradossalmente proprio la famiglia legittima, che semmai a norma dell’art. 31 Cost. andrebbe agevolata.