Negli ultimi giorni esponenti della maggioranza hanno ipotizzato una introduzione “modulare” e per approssimazioni successive della "flat tax" (lasciando per il momento stare il fatto che la nuova imposta avrebbe in realtà due aliquote legali, al 15 e al 20 per cento, applicate al reddito familiare, con i problemi indicati qui): la stessa verrebbe dapprima applicata ai redditi di impresa, e solo in una seconda fase (dopo qualche anno?) alle famiglie.
Un’affermazione del genere può sottendere, ragionevolmente, due significati.
Il primo è che si voglia alludere a una riduzione dell’aliquota Ires applicabile alle società di capitali, oggi pari al 24 per cento, allineandola verso il basso a quella che sarà la futura aliquota applicabile anche alle persone fisiche (o meglio ai redditi familiari), e cioè al 15 o al 20 per cento (mi auguro che non si voglia davvero ipotizzare in futuro un’Ires a due aliquote, per ragioni su cui non posso qui dilungarmi ma che hanno a che fare con le ragioni fondanti della progressività, che si riconnettono all’utilità marginale decrescente dei redditi destinati al consumo - le società, va da sè, non consumano).
In tal caso non si tratterebbe ovviamente dell’introduzione di una "flat tax" (l’Ires è già ad aliquota proporzionale), ma di una significativa riduzione d’imposta sui profitti societari conseguiti attraverso società di capitali, che continuerebbe il trend in atto da tempo in molti Paesi, e che risponde soprattutto ad esigenze di attrattività degli investimenti - cioè a politiche dal lato dell’offerta - e alla concorrenza fiscale internazionale. Resterebbe a quel punto da stabilire se alla riduzione dell’aliquota dal 24 al (poniamo) 15 per cento verrebbe o meno accompagnata da una rimodulazione compensativa delle aliquote di tassazione dei dividendi e dei capital gains percepiti dai soci, in modo da lasciare il prelievo complessivo inalterato, come avvenuto nelle precedenti occasioni di riduzione dell’aliquota Ires.
Vi è tuttavia un secondo modo di intendere i proponimenti di partire da una riduzione delle aliquote per le imprese e per le partite Iva.
La terminologia utilizzata nelle dichiarazioni riportate dalla stampa e la stessa indicazione di voler iniziare a introdurre una "flat tax" sui redditi di impresa sembra infatti alludere, più che (o in aggiunta) a una riduzione dell’aliquota Ires (che a spanne comporterebbe comunque una riduzione del gettito nell’ordine di 10-12 miliardi di euro annui), a un intervento sui redditi di impresa conseguiti da imprenditori individuali e società di persone, e fors’anche ai redditi di lavoro autonomo.
Ma un intervento di questo tipo assumerebbe un significato sostanzialmente opposto a quello sotteso dai modelli impositivi ispirati alla “flat tax”, che si prefiggono il superamento delle logiche frammentarie di imposizione sostitutiva e cedolare, a favore di una tassazione universale di tutti i redditi con un’unica aliquota legale e progressività garantita da un più o meno articolato sistema di esenzioni alla base.
Una tassazione proporzionale sui soli redditi di impresa individuale e su quelli imputati per trasparenza ai soci delle società personali introdurrebbe nell’ordinamento una ulteriore ipotesi di imposizione cedolare e “sostitutiva” dell’Irpef, svuotando ulteriormente il perimetro della progressività che a questo punto verrebbe davvero confinata ai soli redditi di lavoro dipendente e di pensione (e forse a quelli di lavoro autonomo, ove questi non venissero parificati a quelli di impresa).
Si compirebbe così definitivamente la transizione, sia pure in modo sgangherato e con un florilegio di aliquote, verso il modello della “dual income taxation” teorizzato nei paesi del nord europa negli anni novanta del secolo scorso, con tassazione progressiva dei redditi di lavoro e tassazione proporzionale di tutti i redditi di capitale. Si noti che con la riforma dell’IRI (Imposta sul Reddito Imprenditoriale), in vigore dal 2018 su basi opzionali, questo effetto ancora non si produce, dato che la tassazione al 24 per cento dei redditi di impresa individuale e società di persone presuppone il mancato prelievo degli utili per i fini privati dell’imprenditore o del socio, giacché altrimenti scattano le ordinarie aliquote progressive.
Una riforma come quella annunciata in questi giorni, cioè una “flat tax” per le imprese, ancorché negli intendimenti temporanea e transitoria, aumenterebbe i profili di iniquità dell’Irpef, e soprattutto darebbe luogo a un fortissimo incentivo alla “trasformazione” di redditi di lavoro dipendente in redditi d’impresa.
Vi sarebbe cioè una corsa all’apertura di partite Iva, e l’Italia diventerebbe ancor più di quanto non sia un Paese di self-employed, salvo nei settori in cui questo risulterebbe oggettivamente impossibile (impiego pubblico, grande industria, etc.). Voglio dire che una tassazione cedolare e definitiva dei redditi di impresa al 15/20 per cento non solo garantirebbe un cospicuo sgravio d’imposta alle attività imprenditoriali del commercio, dell’artigianato, della piccola industria, ma aprirebbe un varco pericolosissimo per arbitraggi e comportamenti elusivi, col rischio di una massiccia trasformazione di redditi di lavoro - soprattutto se di importo medio-alto - in redditi di capitale, che costituiva (e costituisce) uno dei talloni d’Achille dei sistemi che si ispirano alla “dual income taxation”.