Nel variopinto panorama dei condoni tributari, se si guarda a quanto accaduto negli ultimi decenni, i provvedimenti hanno assunto le più diverse connotazioni, che rendono difficile la ricostruzione in termini unitari dell’istituto “condono”.
Tuttavia, se tralasciamo i provvedimenti di definizione e chiusura delle liti pendenti che intervengono quando il debito tributario è ancora sub judice, le varie leggi di condono si sono di solito ispirate a due modelli: una forma di condono di tipo “clemenziale”, che azzera o riduce le sanzioni amministrative e penali ordinariamente comminabili in relazione a comportamenti evasivi, a patto che il contribuente dichiari sia pure tardivamente e/o assolva interamente il debito tributario (è lo schema usato, ad esempio, nelle recenti rottamazioni delle cartelle, nella voluntary disclosure, nonché nella dichiarazione integrativa prevista dall’art. 8 della L. 289/2002); e una diversa forma volta a far emergere imponibili non dichiarati ma difficilmente accertabili, attraverso forme di definizione “automatica” connesse a maggiorazioni forfettarie delle imposte assolte, costituenti non tanto una dichiarazione tardiva, su basi analitiche, di imponibili occultati quanto una sorta di “prezzo” per ottenere la preclusione di ogni futura attività accertativa. Funzionavano in questo modo, ad esempio, il condono tombale di cui all’art. 9 L. 289/2002, e lo scudo fiscale per i capitali detenuti all’estero.
Rispetto a questa schematizzazione (inevitabilmente semplificatoria), la nuova “dichiarazione integrativa speciale” prevista all’art. 9 del DL fiscale collegato alla manovra di bilancio (nella bozza pubblicata da Italia Oggi) appare un outlier, poiché non solo assomma le suddette caratteristiche, ma ne aggiunge una ulteriore dai caratteri inediti.
Come accade nei condoni clemenziali, la presentazione di una dichiarazione integrativa “speciale” degli imponibili renderà non applicabili le sanzioni amministrative e non perseguibili gli eventuali reati tributari commessi; e come accade nelle definizioni automatiche, l’invio della dichiarazione integrativa speciale garantirà dei benefici, sia pure indiretti, in termini di una mancata estensione (per tre anni) dei termini per l’accertamento, che invece paradossalmente andrà a impattare sfavorevolmente sulla restante platea di contribuenti. La presentazione di dichiarazioni integrative speciali avrà insomma un parziale e indiretto effetto di “scudo” da futuri accertamenti, soprattutto in relazione alle annualità più remote.
Ma ciò che vi è di tendenzialmente inedito nel “condono al quadrato” delineato dall’art. 9 è l’aver associato una dichiarazione integrativa analitica di maggiori imponibili precedentemente occultati, con una riduzione, ora per allora, delle imposte dovute. Sui maggiori imponibili dichiarati con l’integrativa non saranno infatti dovute i tributi vigenti nei periodi d’imposta cui le dichiarazioni si riferiscono, ma un'imposta sostitutiva dell’Irpef (o Ires) e addizionali, dell’Irap, dei contributi previdenziali, dell’Ivafe, e altro ancora, nella misura del 20 per cento.
In questo modo non solo si interviene in assenza di modifiche ordinamentali e in un contesto in cui già esistono strumenti (il ravvedimento operoso “lungo”) per dichiarare tardivamente, praticamente ad libitum, imponibili pregressi godendo di una forte riduzione sanzionatoria, ma si va molto oltre, introducendo un’agevolazione tributaria retroattiva proprio a vantaggio dei soggetti meno meritevoli, cioè di coloro che si erano (parzialmente) sottratti ai propri obblighi dichiarativi, forse pensando a un allucinante collegamento con la nuova sedicente “flat tax” (cioè l’imposta sostitutiva) che interesserà il mondo delle partite Iva fino a 65/100 mila euro. Come se, insomma, una volta deciso di introdurre sgravi d’imposta per i redditi futuri, li si volesse - crepi l’avarizia - estendere anche al passato.
Ma non è tutto: un’imposta sostitutiva dell’Irpef e di altri tributi, con aliquota (20 per cento) inferiore alla più bassa aliquota Irpef, applicabile agli imponibili oggetto di integrazione fino all’importo massimo di 100 mila euro per singolo periodo di imposta, determina un andamento regressivo del prelievo, con un evidente vulnus dell’art. 53 comma 2 della Costituzione e del principio di progressività. Anche se quest’ultimo si riferisce al sistema e non ai singoli tributi, mi sembra difficile pensare che una surrettizia modifica della curva della progressività risulti in linea col parametro costituzionale, dato che ad essere alterato sarebbe proprio il tributo “caratterizzante” e più importante per gettito, cui tutti riconoscono l’effetto di orientare in senso progressivo l’intero sistema tributario.
A parità di capacità contributiva, vi saranno alcuni soggetti che pagheranno meno di coloro che avevano tempestivamente dichiarato, e per loro l’Irpef si trasformerà in un tributo regressivo.
Come andrà a finire? La Corte Costituzionale ha in passato dichiarato non illegittimi i provvedimenti di condono, ma lo ha fatto invocando una valenza procedimentale delle leggi di condono, capaci di incidere sulle controversie pendenti ed escludendo invece un “contrasto col principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., che riguarda la disciplina sostanziale dei tributi e non il relativo contenzioso” (Corte Cost. 172/1986).
La nuova dichiarazione integrativa “speciale” interviene invece proprio sulla disciplina sostanziale dei tributi, alterando retroattivamente la ripartizione dei carichi tributari fuori da ogni meccanismo automatico e in presenza di maggiori imponibili dichiarati analiticamente. Mi pare perciò “non manifestamente infondato” prospettare, come si usa dire, una irragionevolezza ed arbitrarietà della norma, con violazione dell’art. 3 (uguaglianza) nonché dell’art. 53 della Costituzione, sia con riguardo al primo (principio di capacità contributiva) che al secondo comma (progressività del sistema tributario).
Bisognerà trovare il modo di portare la questione all’attenzione dei giudici costituzionali, non è detto che anche stavolta vada a finire come le volte precedenti.
Riflessioni e commenti su tassazione, politiche fiscali ed economia pubblica. A volte anche su altri temi di attualità
mercoledì 17 ottobre 2018
martedì 5 giugno 2018
“Flat tax” sulle imprese, verso una ulteriore cedolare?
Negli ultimi giorni esponenti della maggioranza hanno ipotizzato una introduzione “modulare” e per approssimazioni successive della "flat tax" (lasciando per il momento stare il fatto che la nuova imposta avrebbe in realtà due aliquote legali, al 15 e al 20 per cento, applicate al reddito familiare, con i problemi indicati qui): la stessa verrebbe dapprima applicata ai redditi di impresa, e solo in una seconda fase (dopo qualche anno?) alle famiglie.
Un’affermazione del genere può sottendere, ragionevolmente, due significati.
Il primo è che si voglia alludere a una riduzione dell’aliquota Ires applicabile alle società di capitali, oggi pari al 24 per cento, allineandola verso il basso a quella che sarà la futura aliquota applicabile anche alle persone fisiche (o meglio ai redditi familiari), e cioè al 15 o al 20 per cento (mi auguro che non si voglia davvero ipotizzare in futuro un’Ires a due aliquote, per ragioni su cui non posso qui dilungarmi ma che hanno a che fare con le ragioni fondanti della progressività, che si riconnettono all’utilità marginale decrescente dei redditi destinati al consumo - le società, va da sè, non consumano).
In tal caso non si tratterebbe ovviamente dell’introduzione di una "flat tax" (l’Ires è già ad aliquota proporzionale), ma di una significativa riduzione d’imposta sui profitti societari conseguiti attraverso società di capitali, che continuerebbe il trend in atto da tempo in molti Paesi, e che risponde soprattutto ad esigenze di attrattività degli investimenti - cioè a politiche dal lato dell’offerta - e alla concorrenza fiscale internazionale. Resterebbe a quel punto da stabilire se alla riduzione dell’aliquota dal 24 al (poniamo) 15 per cento verrebbe o meno accompagnata da una rimodulazione compensativa delle aliquote di tassazione dei dividendi e dei capital gains percepiti dai soci, in modo da lasciare il prelievo complessivo inalterato, come avvenuto nelle precedenti occasioni di riduzione dell’aliquota Ires.
Vi è tuttavia un secondo modo di intendere i proponimenti di partire da una riduzione delle aliquote per le imprese e per le partite Iva.
La terminologia utilizzata nelle dichiarazioni riportate dalla stampa e la stessa indicazione di voler iniziare a introdurre una "flat tax" sui redditi di impresa sembra infatti alludere, più che (o in aggiunta) a una riduzione dell’aliquota Ires (che a spanne comporterebbe comunque una riduzione del gettito nell’ordine di 10-12 miliardi di euro annui), a un intervento sui redditi di impresa conseguiti da imprenditori individuali e società di persone, e fors’anche ai redditi di lavoro autonomo.
Ma un intervento di questo tipo assumerebbe un significato sostanzialmente opposto a quello sotteso dai modelli impositivi ispirati alla “flat tax”, che si prefiggono il superamento delle logiche frammentarie di imposizione sostitutiva e cedolare, a favore di una tassazione universale di tutti i redditi con un’unica aliquota legale e progressività garantita da un più o meno articolato sistema di esenzioni alla base.
Una tassazione proporzionale sui soli redditi di impresa individuale e su quelli imputati per trasparenza ai soci delle società personali introdurrebbe nell’ordinamento una ulteriore ipotesi di imposizione cedolare e “sostitutiva” dell’Irpef, svuotando ulteriormente il perimetro della progressività che a questo punto verrebbe davvero confinata ai soli redditi di lavoro dipendente e di pensione (e forse a quelli di lavoro autonomo, ove questi non venissero parificati a quelli di impresa).
Si compirebbe così definitivamente la transizione, sia pure in modo sgangherato e con un florilegio di aliquote, verso il modello della “dual income taxation” teorizzato nei paesi del nord europa negli anni novanta del secolo scorso, con tassazione progressiva dei redditi di lavoro e tassazione proporzionale di tutti i redditi di capitale. Si noti che con la riforma dell’IRI (Imposta sul Reddito Imprenditoriale), in vigore dal 2018 su basi opzionali, questo effetto ancora non si produce, dato che la tassazione al 24 per cento dei redditi di impresa individuale e società di persone presuppone il mancato prelievo degli utili per i fini privati dell’imprenditore o del socio, giacché altrimenti scattano le ordinarie aliquote progressive.
Una riforma come quella annunciata in questi giorni, cioè una “flat tax” per le imprese, ancorché negli intendimenti temporanea e transitoria, aumenterebbe i profili di iniquità dell’Irpef, e soprattutto darebbe luogo a un fortissimo incentivo alla “trasformazione” di redditi di lavoro dipendente in redditi d’impresa.
Vi sarebbe cioè una corsa all’apertura di partite Iva, e l’Italia diventerebbe ancor più di quanto non sia un Paese di self-employed, salvo nei settori in cui questo risulterebbe oggettivamente impossibile (impiego pubblico, grande industria, etc.). Voglio dire che una tassazione cedolare e definitiva dei redditi di impresa al 15/20 per cento non solo garantirebbe un cospicuo sgravio d’imposta alle attività imprenditoriali del commercio, dell’artigianato, della piccola industria, ma aprirebbe un varco pericolosissimo per arbitraggi e comportamenti elusivi, col rischio di una massiccia trasformazione di redditi di lavoro - soprattutto se di importo medio-alto - in redditi di capitale, che costituiva (e costituisce) uno dei talloni d’Achille dei sistemi che si ispirano alla “dual income taxation”.
sabato 12 maggio 2018
Non è una flat tax ma è a rischio incostituzionalità
Secondo le notizie di stampa ci sarebbe un accordo di massima, tra le forze politiche del nascente governo, sulla riforma dell’Irpef in direzione di una “flat tax” (che in realtà non sarebbe più tale) corretta da una seconda aliquota sui redditi superiori a una certa soglia.
Riporta ad esempio il quotidiano “La Repubblica” del 12 maggio a pag. 6: “La ‘quasi’ flat tax, un compromesso tra le tre aliquote proposte dai grillini e l’aliquota unica brandita dalla Lega, ha due aliquote Irpef del 15 e del 20 per cento invece delle attuali cinque... ed ha un carattere ‘familiare’, cioè nel caso ci siano due partner questi pagheranno le tasse sulla somma dei rispettivi redditi e non separatamente come avviene oggi. Il piano prevede che si debba pagare con una aliquota del 15 per cento sul reddito familiare fino a 80 mila euro lordi e il 20 per cento sopra gli 80 mila”.
Il problema della progressività verrebbe risolto “introducendo una deduzione ‘discendente' per abbattere l’imponibile” pari a 3000 euro per ogni componente del nucleo fino a 35 mila euro, solo per i familiari a carico tra 35 e 50 mila euro, mentre nessuna deduzione spetterebbe superati i 50 mila euro di imponibile familiare. Inoltre, per superare il problema rappresentato dal fatto che la deduzione di 3000 euro peggiorerebbe la situazione di chi oggi, usufruendo delle detrazioni di lavoro dipendente e pensione, non paga imposta fino a circa 8000 euro di imponibile, verrebbe introdotta una clausola di salvaguardia per garantire ai contribuenti meno abbienti almeno la parità di trattamento rispetto al regime attuale.
Questa configurazione ricalca quella prevista dal disegno di legge presentato dalla Lega nella trascorsa legislatura, riguardo al quale avevo segnalato en passant qualche criticità nel mio Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax, pp. 42-43:
“... quest’ultimo [n.d.a: il disegno di legge] prevede infatti che, per i redditi superiori a 50 mila euro, si applichi l’aliquota del 15 per cento senza alcuna deduzione, in potenziale contrasto con l’esigenza di un andamento progressivo del tributo per ogni ammontare di reddito. L’imposta si comporterebbe alla stregua di quanto accade in Ucraina e in Russia, che concedono la personal allowance soltanto fino a un certo livello di reddito, poi ritirandola del tutto; per redditi superiori l’imposta avrebbe dunque un andamento sempre proporzionale, dato che l’aliquota media coinciderebbe con quella marginale.
Inoltre, la modesta soglia fissata nella suddetta proposta di legge per la deduzione personale (3000 euro), laddove spettante, non sarebbe in grado di tutelare efficacemente il minimo d’esistenza, con effetti distributivi avversi e incremento delle disuguaglianze, accentuati dalla scelta di un’aliquota assai inferiore alla minore aliquota Irpef oggi vigente (23 per cento), in parziale controtendenza rispetto ai Paesi che hanno sostituito una flat-rate tax alle precedenti imposte ad aliquote progressive: la maggior parte di essi si è infatti assestata in un intorno della più bassa aliquota marginale, mentre alcuni hanno optato per un’aliquota intermedia tra la minima e la massima.
Ancora, nella citata proposta di legge non si comprendono le ragioni per il mantenimento in vita, attraverso una clausola di salvaguardia, del vigente sistema di detrazioni per i redditi di lavoro dipendente, autonomo e pensione, finalizzato ad azzerare l’imposizione. Rimarrebbero infatti in vigore le detrazioni previste dal’art. 13 del Tuir, nonché tutte le altre deduzioni e detrazioni oggi contemplate dal testo unico, se più favorevole rispetto alla nuova imposta ad aliquota unica con deduzione pari a 3000 euro. Logica vorrebbe, invece, che venisse stabilita una soglia esente uguale per tutti, finalizzata alla detassazione dei redditi di sussistenza, almeno pari a quella oggi prevista per i redditi di lavoro dipendente”.
Rispetto alla situazione descritta, la previsione di una seconda aliquota (del 20 per cento) sui redditi familiari superiori a 80 mila euro avrebbe a prima vista l'effetto di rendere più percepibile la progressività dell’imposta, rendendola più in linea con quanto prescrive l’art. 53 secondo comma della Costituzione.
Un’imposta ad aliquote progressive per scaglioni (15 per cento fino a 80 mila euro, 20 sul reddito eccedente), applicata al reddito familiare anziché a quello individuale, presterebbe tuttavia il fianco a un diverso tipo di censure, fondate sull’art. 3 e l’art. 53 della Costituzione, cioè sul principio di uguaglianza tributaria. A parità di capacità contributiva, infatti, sarebbero trattate in modo deteriore le coppie sposate rispetto ai single e alle coppie non sposate. Il cumulo dei redditi della coppia farebbe infatti scattare, ad un certo punto, la più elevata aliquota del 20 per cento, che invece non si applicherebbe considerando i redditi dei singoli individui separatamente. Ci si troverebbe insomma in una situazione del tutto analoga a quella che portò la Corte Costituzionale a dichiarare l’incostituzionalità del cd. “cumulo dei redditi”, secondo il quale ai fini della dichiarazione e del calcolo dell’imposta personale i redditi della moglie dovevano essere cumulati a quelli del marito (sentenza n. 179 del 1976).
La Corte in quell’occasione affermò tra l’altro quanto segue:
"Si sostiene, riportandosi alle disposizioni ed ai principi di cui all'art. 53 della Costituzione, che il legislatore abbia dettato le norme in questione presupponendo o presumendo: che la capacità contributiva di due persone, coniugi non separati, sia in concreto superiore a quella delle stesse due persone che non siano coniugi, a causa della riduzione delle spese generali, della collaborazione e dell'assistenza reciproca, ecc., e che il marito, come capo della famiglia abbia la materiale disponibilità dei redditi della moglie non separata; e ritenendo di dover tutelare l'esigenza che l'IRPEF, sia applicata sul reddito complessivo del soggetto, tenendosi conto della concreta attitudine di questo a concorrere alle spese pubbliche, e l'esigenza che siano impedite evasioni di imposta attraverso fittizie intestazioni di beni e fittizie attribuzioni di redditi da un coniuge a favore dell'altro.
Nella sostanza la tutela di tali esigenze merita di essere approvata. Però non si può fare a meno di osservare che le due presupposizioni o presunzioni non sono invocabili perché la convivenza dei coniugi indubbiamente influisce sulla capacità contributiva di ciascuno di essi, ma non è dimostrato né dimostrabile, anche per la grande varietà delle possibili ipotesi e delle situazioni concrete (caratterizzate, tra l'altro, dalla esistenza di figli), che in ogni caso per tale influenza si abbia un aumento della capacità contributiva dei due soggetti insieme considerati; e perché, tranne le ipotesi in cui in fatto sia il marito a poter disporre del reddito di entrambi, e quelle in cui de iure ciò avviene, di regola i redditi sono prodotti separatamente e tenuti distinti ed anche quando siano posti in comune, non è solo il marito a poterne disporre ma lo sono entrambi i coniugi, con un grado maggiore o minore di autonomia a seconda dei casi; e che, comunque, la posizione di capo famiglia attribuita al marito può apparire, sotto certi aspetti, di incerta conformità a Costituzione e ad ogni modo risulta superata dalla riforma del diritto di famiglia.
E del pari si deve rilevare che alle esigenze sopraddette con le norme in questione non è stata data adeguata e razionale tutela perché, a parte il fatto che all'applicazione dell'imposta sul reddito complessivo di entrambi i coniugi si perviene attraverso un sistema normativo che va anche contro altre disposizioni costituzionali, si è posto in essere nei confronti dei coniugi conviventi un trattamento fiscale più oneroso rispetto a quello previsto per conviventi non uniti in matrimonio (che vengono assoggettati separatamente all'imposta, pur beneficiando degli eventuali vantaggi connessi o conseguenti alla vita in comune).
Ed infine c'è da considerare che la mancata tutela egualitaria dei coniugi non è il riflesso o il correlato della esistenza di norme dettate a garanzia dell'unità familiare. Ché anzi è possibile riscontrare, anche per la normativa risultante dalla riforma tributaria, una scelta di politica legislativa che anche a non volerla ritenere in contrasto con gli interessi tutelati dall'art. 31 della Costituzione, di certo non può dirsi dettata in favore della famiglia legittima”.
Insomma, se la flat tax - cioè un’imposta ad aliquota unica con esenzione dei redditi minimi - appare tendenzialmente neutrale rispetto alla scelta dell’unità impositiva (individuo o nucleo familiare), dato che il carico fiscale complessivo non muta considerando i redditi individuali o il reddito familiare, la scelta di un’imposta ad aliquote progressive applicata al reddito familiare determinerebbe con ogni probabilità una pronuncia di incostituzionalità per violazione del principio di capacità contributiva e uguaglianza tributaria, anche perché, come faceva capolino nel brano della Corte testé riportato, ad essere trattata in modo deteriore sarebbe paradossalmente proprio la famiglia legittima, che semmai a norma dell’art. 31 Cost. andrebbe agevolata.
giovedì 4 gennaio 2018
Rivalsa obbligatoria del prezzo dei sacchetti per la spesa: non è una tassa ma a che serve?
Contrariamente a quanto affermato da molti mezzi di informazione, quella sui sacchetti biodegradabili per l’ortofrutta non è una tassa o una misura tributaria, semmai una “prestazione imposta in base alla legge” (art. 23 Cost.).
Non è infatti prevista una destinazione dell’introito all’ente pubblico o il suo utilizzo per servizi pubblici: il prezzo dei sacchetti, da riaddebitare obbligatoriamente ai consumatori, va a formare i ricavi del rivenditore e non deve certo essere riversato all’erario. E’ appunto un caso di prestazione patrimoniale imposta non avente natura tributaria: i consumatori rimangono incisi dalla rivalsa del prezzo dei sacchetti, subendo una decurtazione patrimoniale, ma lo scopo non risiede nel finanziamento della spesa pubblica né sta a fronte di un servizio pubblico reso al singolo (come appunto accade nelle “tasse”). Si tratta semmai di una componente del prezzo dei beni acquistati dai consumatori di alimenti, che anziché essere lasciata al funzionamento delle logiche del mercato è oggetto di una norma imperativa.
L’art. 9-bis della L. 123/2017 opera in due direzioni.
Da un lato vieta l’utilizzo dei normali sacchetti di plastica per confezionare gli alimenti, consentendo soltanto l’uso di sacchetti ultraleggeri di plastica biodegradabile per la pesatura di frutta, verdura, pane, etc.
Dall’altro vieta però ai rivenditori di distribuire gratuitamente i sacchetti biodegradabili (gli unici utilizzabili dal 1.1.2018) e impone che gli stessi siano pagati dai consumatori, visto l’obbligo di rivalsa che dovrà risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati.
Curiosamente, non si prevede la rivalsa sui consumatori del “costo” di acquisto dei sacchetti sopportato dal rivenditore, ma la separata indicazione del "prezzo di vendita per singola unità”, il che rende legittima sia l’applicazione un ricarico che - direi - una vendita dei sacchetti sottocosto (che non sarebbe equivalente a una "distribuzione a titolo gratuito”).
Ma qual è la finalità della norma? Pare sia quella di sensibilizzare i consumatori sui “costi sociali” dell’utilizzo di materiali inquinanti (anche i sacchetti biodegradabili contengono plastica e comportano costi di smaltimento), ma logica vorrebbe che la prospettiva del pagamento inducesse i consumatori a usare materiali alternativi per gli imballaggi, ipotesi che appare per ora abbastanza incerta (uso di imballaggi in carta? o che altro?), e comunque non facilmente gestibile da rivenditori e consumatori.
Il pagamento dei sacchetti di plastica da parte dei consumatori avrebbe un senso se servisse a scoraggiare l’uso di materiali inquinanti, per favorire altri materiali più ecosostenibili, ma fino a quel momento appare una misura davvero singolare, utile solo a irritare l’opinione pubblica, che ha la sensazione di pagare un balzello aggiuntivo.
Far pagare le esternalità negative delle produzioni o dei consumi inquinanti, come nelle imposte pigouviane, ha un senso quando l’onere è posto a carico di chi è responsabile dell’inquinamento, ma nel caso dei sacchetti per gli alimenti i consumatori non sono responsabili di alcunché, non avendo alternative plausibili di confezionamento né trattandosi di consumi voluttuari o superflui da cui ci si può astenere. Inoltre, la rivalsa ha il solo effetto di manlevare dal costo i rivenditori di alimenti (integrando i loro ricavi), cioè proprio i soggetti che esercitano l’attività lucrativa che impone oggettivamente l’uso dei sacchetti per la spesa, e che potrebbero ricevere un indebito arricchimento dalla rivalsa, nella misura in cui il costo dei sacchetti fosse già compreso nei prezzi delle merci, che dubito saranno ritoccati al ribasso per tener conto dell’obbligo di rivalsa analitica in vigore dal 1° gennaio.
Questa misura non è invece di per sé in grado - come si è sospettato - di favorire le imprese operanti nel settore dei sacchetti biodegradabili, che semmai sono favorite dall’aver messo fuori legge i sacchetti di plastica tradizionali o altri materiali non consentiti: la produzione di queste imprese sarebbe infatti attivata allo stesso modo anche senza obblighi di rivalsa sui consumatori dei costi dei sacchetti della spesa, cioè anche qualora questi costi restassero a carico dei rivenditori (salvo comunque traslarli a valle inglobandoli forfettariamente nei prezzi al dettaglio delle merci).
La singolarità e le perplessità sugli effetti della misura mi sembrano infine accentuate da un’altra considerazione: perché introdurre una norma dirigistica che interviene in un rapporto interprivatistico, riguardante le decisioni dei supermercati e rivenditori in genere di traslare sul prezzo dei prodotti il costo di un particolare tipo di imballaggi (sacchetti ultraleggeri per il confezionamento di alimenti sfusi da pesare), peraltro poco inquinanti e tendenzialmente privi ad oggi di plausibili alternative, quando invece nel caso dei numerosissimi prodotti già confezionati che utilizzano imballaggi in plastica il costo ad essi relativo non è separatamente evidenziato e dunque il consumatore non ne è consapevole?
Non è infatti prevista una destinazione dell’introito all’ente pubblico o il suo utilizzo per servizi pubblici: il prezzo dei sacchetti, da riaddebitare obbligatoriamente ai consumatori, va a formare i ricavi del rivenditore e non deve certo essere riversato all’erario. E’ appunto un caso di prestazione patrimoniale imposta non avente natura tributaria: i consumatori rimangono incisi dalla rivalsa del prezzo dei sacchetti, subendo una decurtazione patrimoniale, ma lo scopo non risiede nel finanziamento della spesa pubblica né sta a fronte di un servizio pubblico reso al singolo (come appunto accade nelle “tasse”). Si tratta semmai di una componente del prezzo dei beni acquistati dai consumatori di alimenti, che anziché essere lasciata al funzionamento delle logiche del mercato è oggetto di una norma imperativa.
L’art. 9-bis della L. 123/2017 opera in due direzioni.
Da un lato vieta l’utilizzo dei normali sacchetti di plastica per confezionare gli alimenti, consentendo soltanto l’uso di sacchetti ultraleggeri di plastica biodegradabile per la pesatura di frutta, verdura, pane, etc.
Dall’altro vieta però ai rivenditori di distribuire gratuitamente i sacchetti biodegradabili (gli unici utilizzabili dal 1.1.2018) e impone che gli stessi siano pagati dai consumatori, visto l’obbligo di rivalsa che dovrà risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati.
Curiosamente, non si prevede la rivalsa sui consumatori del “costo” di acquisto dei sacchetti sopportato dal rivenditore, ma la separata indicazione del "prezzo di vendita per singola unità”, il che rende legittima sia l’applicazione un ricarico che - direi - una vendita dei sacchetti sottocosto (che non sarebbe equivalente a una "distribuzione a titolo gratuito”).
Ma qual è la finalità della norma? Pare sia quella di sensibilizzare i consumatori sui “costi sociali” dell’utilizzo di materiali inquinanti (anche i sacchetti biodegradabili contengono plastica e comportano costi di smaltimento), ma logica vorrebbe che la prospettiva del pagamento inducesse i consumatori a usare materiali alternativi per gli imballaggi, ipotesi che appare per ora abbastanza incerta (uso di imballaggi in carta? o che altro?), e comunque non facilmente gestibile da rivenditori e consumatori.
Il pagamento dei sacchetti di plastica da parte dei consumatori avrebbe un senso se servisse a scoraggiare l’uso di materiali inquinanti, per favorire altri materiali più ecosostenibili, ma fino a quel momento appare una misura davvero singolare, utile solo a irritare l’opinione pubblica, che ha la sensazione di pagare un balzello aggiuntivo.
Far pagare le esternalità negative delle produzioni o dei consumi inquinanti, come nelle imposte pigouviane, ha un senso quando l’onere è posto a carico di chi è responsabile dell’inquinamento, ma nel caso dei sacchetti per gli alimenti i consumatori non sono responsabili di alcunché, non avendo alternative plausibili di confezionamento né trattandosi di consumi voluttuari o superflui da cui ci si può astenere. Inoltre, la rivalsa ha il solo effetto di manlevare dal costo i rivenditori di alimenti (integrando i loro ricavi), cioè proprio i soggetti che esercitano l’attività lucrativa che impone oggettivamente l’uso dei sacchetti per la spesa, e che potrebbero ricevere un indebito arricchimento dalla rivalsa, nella misura in cui il costo dei sacchetti fosse già compreso nei prezzi delle merci, che dubito saranno ritoccati al ribasso per tener conto dell’obbligo di rivalsa analitica in vigore dal 1° gennaio.
Questa misura non è invece di per sé in grado - come si è sospettato - di favorire le imprese operanti nel settore dei sacchetti biodegradabili, che semmai sono favorite dall’aver messo fuori legge i sacchetti di plastica tradizionali o altri materiali non consentiti: la produzione di queste imprese sarebbe infatti attivata allo stesso modo anche senza obblighi di rivalsa sui consumatori dei costi dei sacchetti della spesa, cioè anche qualora questi costi restassero a carico dei rivenditori (salvo comunque traslarli a valle inglobandoli forfettariamente nei prezzi al dettaglio delle merci).
La singolarità e le perplessità sugli effetti della misura mi sembrano infine accentuate da un’altra considerazione: perché introdurre una norma dirigistica che interviene in un rapporto interprivatistico, riguardante le decisioni dei supermercati e rivenditori in genere di traslare sul prezzo dei prodotti il costo di un particolare tipo di imballaggi (sacchetti ultraleggeri per il confezionamento di alimenti sfusi da pesare), peraltro poco inquinanti e tendenzialmente privi ad oggi di plausibili alternative, quando invece nel caso dei numerosissimi prodotti già confezionati che utilizzano imballaggi in plastica il costo ad essi relativo non è separatamente evidenziato e dunque il consumatore non ne è consapevole?
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