Perché si dovrebbe voler preferire un’imposta ad aliquota piatta, anziché ad aliquote graduate, e perché mai l’aliquota dovrebbe essere fissata al 25 per cento e non, invece, al 15, al 20, al 35 per cento o a una diversa altezza?
La questione di quale sia la “ottimale" scala e altezza delle aliquote ha a che fare con un problema di efficienza della tassazione, giacché si propone di ricercare le aliquote meno distorsive sui comportamenti di produttori e consumatori.
La teoria dell’Optimal Taxation, a partire da Mirlees (ma prima ancora con Ramsey), ha cercato di fornire una risposta mettendo in relazione le aliquote alla diversa capacità degli individui, alle loro preferenze e funzioni di utilità, alla distribuzione ed elasticità dei redditi, alle caratteristiche personali come età, genere, salute, istruzione ricevuta, etc. (“tagging”), alla funzione redistributiva desiderata, e altro ancora.
I risultati raggiunti sono stati sorprendenti: alcuni lavori hanno dimostrato l’ottimalità di una flat tax con un sussidio universale agli individui meno dotati (più poveri), un po’ come accade nella proposta dell’Istituto Bruno Leoni. Altri studi invece suggeriscono l’ottimalità di una struttura con aliquote marginali più elevate sugli individui ad alto reddito, specie nei casi in cui esista una forte disuguaglianza nella distribuzione delle capacità tra gli individui (che non si conosce, e viene approssimata dai loro redditi effettivi).
I risultati sono in ogni caso assai controversi, e per questo è difficile trasferire i risultati della teoria alle tax policy, anche se si può riscontrare nell’ultimo trentennio una generalizzata tendenza alla riduzione delle aliquote marginali più elevate e a un appiattimento delle tax schedules.
Incertezza e complessità insite nell’optimal taxation non sono però l’unica ragione della sua dubbia utilità concreta. Il fatto è che l’efficienza o la mancanza di distorsioni non sono l’unico parametro che viene in rilievo nelle decisioni di politica tributaria: entrano infatti in gioco altri valori, come l’equità orizzontale (cioè la parità di trattamento tra redditi di pari ammontare, indipendentemente dalla fonte del reddito o dagli status dell’individuo), l’opportunità di utilizzare in certi frangenti il principio del beneficio, la difficoltà di proporre all’opinione pubblica soluzioni controintuitive e che non verrebbero comprese.
I tributi meno distorsivi in assoluto sono ad esempio le lump-sum taxes, come il testatico o focativo: un’imposta in misura fissa uguale per tutti i contribuenti. E’ evidente che un tributo di questo tipo non sarebbe oggi tollerabile, dopo che nella letteratura economico-giuridica e nella prassi costituzionale ha fatto ingresso il principio della capacità contributiva (ability principle) come presupposto e parametro della tassazione.
O si pensi all'approdo, indiscusso, cui l’optimal taxation è giunta con riguardo all’adozione di un’aliquota zero sui redditi di capitale, difficilmente digeribile sul piano dell’equità e della parità di trattamento rispetto ai redditi di lavoro.
Alla domanda se un’imposta con aliquota piatta (e con esenzione dei redditi minimi e sussidio per gli incapienti) sia un modello impositivo ottimale non si può dunque dare un’univoca risposta, così come non lo si può dare per nessuna scala di aliquote progressive.
Sarebbe però sbagliato rigettare per questa sola ragione l’ipotesi: come osservato, la lezione dei modelli di Mirlees ed altri è che “proposals for a flat tax are not inherently unreasonable. In part this is due to the many sources of uncertainty that make it hard to pin down an optimal marginal tax schedule. But it is also due to the suggestive evidence that simulations can lead to optimal tax schedules that are near, both in terms of tax rates and welfare impacts, to a flat marginal tax schedule. If a flat marginal tax schedule has benefits outside the model, such as administrative semplicity, enforceability, and transparency, the case for it is strengthened” (Mankiw, Weinzierl, Yagan, Optimal Taxation in Theory and Practice, 2009).
A ciò si può aggiungere, guardando al caso italiano, quanto segue:
a) vi è una grossolana e sempre più intollerabile, sul piano dell’uguaglianza tributaria e dell’equità orizzontale, disparità tra redditi fondati sul capitale, tassati con miti aliquote proporzionali (peraltro tutte diverse tra loro!) od esentati, e redditi di lavoro che pagano aliquote progressive;
b) l’Irpef progressiva sui redditi di lavoro (perdonatemi, ma non riesco più a chiamarla "sul reddito complessivo") è già ad aliquota marginale proporzionale, cioè flat, su redditi superiori a 75 mila euro, ma in realtà in buona sostanza già a partire da 28 mila euro. Tutta la progressività si gioca sui primi tre scaglioni, e si scarica sui redditi medio-bassi (sarà ottimale questa struttura?);
c) l’aliquota è già flat, cioè proporzionale, per una lunga serie di redditi: agrari (oggi addirittura esentati), da locazioni di lungo o breve periodo, su interessi e proventi finanziari, su capital gains (tassati al 26 per cento, ma affrancabili con aliquote simboliche, oppure esenti se di lungo periodo - PIR), su plusvalenze immobiliari (quando non esentate). E ancora su redditi derivanti da attività, come quelli degli autonomi “minimi” o di imprenditori individuali e società di persone che possono optare per l’aliquota societaria del 24 per cento, rinviando sine die o evitando del tutto il prelievo progressivo. E poi sui carried interest (elementi della retribuzione di individui ad altro reddito), sui redditi percepiti da soggetti non residenti, su titolari di alti redditi che trasferiranno la residenza in Italia (questi pagheranno una lump-sum, cioè - paradossalmente! - un’imposta ottimale), forse a breve sui pensionati emigrati in Italia da altri Paesi, etc.
d) non vi è un'esenzione generalizzata del “minimo vitale” né alcun sussidio agli incapienti;
e) vi sono assai pochi individui che dichiarano redditi elevati, anche perché i titolari di redditi veramente elevati li conseguono di solito nella forma di redditi immobiliari, capital gains, etc. o li “mascherano” in strutture societarie o trust utilizzati per attività di godimento;
f) il sistema si è formato per stratificazioni successive che rendono illeggibili le aliquote effettive e quelle marginali, e che ne hanno aumentato la complessità e le distorsioni.
In questa situazione, il passaggio a una flat tax con imposta negativa e/o sussidio agli incapienti non appare - a maggior ragione - affatto irragionevole. Al contrario l’obiezione centrata sulla presunta "non ottimalità” è mal posta, sia perché una tale obiezione può essere mossa a qualsiasi struttura delle aliquote, sia perché l’efficienza non è l’unico parametro cui devono e possono, per ragioni di fattibilità politica, conformarsi gli ordinamenti tributari.
Detto questo, ci si potrebbe però chiedere perché mai, anche ad ammettere un’aliquota flat, dovrebbe essere “ottimale” o comunque preferibile un tasso d’imposta del 25 per cento, anziché, ad esempio, del 15 o del 35. Ora, premesso che la scelta dell’aliquota (o delle aliquote) è una scelta eminentemente politica - come visto l’optimal taxation è solo di parziale aiuto - che dipende in buona parte da vincoli di gettito e preferenze redistributive, data l'attuale situazione italiana la scelta dell’aliquota unica (sempre che si volesse adottare il modello della flat-rate tax) deve tendenzialmente rispettare una serie di vincoli che orientano razionalmente la scelta. E cioè:
1) un primo vincolo alla fissazione dell’aliquota dipende dal livello della deduzione e della fascia esente. Difficilmente questa può essere abbassata rispetto all’attuale livello di esenzione fissato per lavoro dipendente e pensione, cioè sul “minimo vitale” oggi consolidato. Inoltre con l’aliquota unica l’effetto di progressività si ottiene con le deduzioni alla base, dunque queste devono essere sufficientemente elevate anche per non correre rischi di una declaratoria di incostituzionalità;
2) la transizione alla flat tax non può avvenire a parità di gettito, giacché tutti devono avvantaggiarsene. Altrimenti a guadagnare sarebbero solo i titolari di redditi bassi e (in misura maggiore) di redditi elevati, con aggravamento della posizione della classe media, e impossibilità di ottenere il consenso su una simile proposta;
3) se deve avvenire riducendo il gettito, e soprattutto la pressione sul lavoro per tutti i livelli di reddito, la riduzione non può però essere tale da mettere in discussione la tenuta dei conti pubblici. La riduzione deve cioè poter essere coperta con revisioni/tagli di spesa di entità plausibile (sappiamo quanto sia difficile ridurre la spesa pubblica italiana), oppure con spostamento del prelievo su altri cespiti;
4) tra i vantaggi della flat tax - in termini di eliminazione di arbitraggi e uso “elusivo” di strutture intermedie - vi è appunto l’unificazione delle aliquote per le diverse categorie di reddito, che oggi (o almeno le principali) passano in un intorno del 21-26 per cento, nonché con l’allineamento all’aliquota sul reddito societario, fissata dal 2017 al 24 per cento;
5) a loro volta le aliquote sul reddito societario e quella sui redditi di capitale sono esposte alla concorrenza internazionale, dunque non possono essere elevate se non col rischio di un deflusso di capitali;
6) l’aliquota, per produrre un incentivo al lavoro sulla maggior parte degli individui, deve tener conto (se possibile essere inferiore) dell’attuale aliquota marginale media, che se non sbaglio è di poco superiore al 27 per cento.
Insomma, in un delicato tentativo di contemperare equità, efficienza e vincoli di bilancio, l’aliquota del 25 per cento è certamente indicativa (non potrebbe essere diversamente, trattandosi di una scelta rimessa a un eventuale decisore politico), ma dovrà comunque essere fissata in un suo intorno: ecco perché non potrà essere del 15 o del 35 per cento, come qualcuno si è chiesto col fine di insinuare l'arbitrarietà dell'indicazione.