Le polemiche sul cd. “fondo salva Stati”, centrate su un presunto deficit di democrazia del meccanismo, di pesante intromissione nella sfera di sovranità dello Stato beneficiario dell’aiuto, di “colpi di stato” e sovvertimento delle regole solidaristiche a vantaggio di ciniche operazioni governate da bieche logiche di mercato (come quelle di Paolo Becchi e di Lidia Undiemi), sembrano non tener conto dell’attuale assetto dei rapporti tra gli Stati dell’Unione Europea, di cui il fondo salva Stati (meccanismo europeo di stabilità) è soltanto un riflesso.
Il punto è che l’Unione Europea non è uno Stato federale, e forse nemmeno una confederazione tra Stati: l’Unione Europea, indipendentemente da come la si voglia inquadrare, al di là di dazi doganali, prelievi agricoli e una piccola percentuale dell’Iva, non dispone di tributi propri, e i suoi trattati istitutivi non contemplano trasferimenti di risorse tra Stati membri per perequare la diversa capacità fiscale dei cittadini dell’Unione.
E’ noto del resto che la politica fiscale resta appannaggio dei singoli Stati membri sovrani, al di là dell’armonizzazione in materia di imposte sul consumo, e il gettito fiscale di ogni Stato è vincolato ad una spesa pubblica che ha contorni nazionali. Non esistono insomma contribuenti “europei”, ma contribuenti tedeschi, francesi, italiani, greci, e così via.
In questo scenario, si spiega che l’attivazione di un meccanismo per la stabilità finanziaria dell’eurozona sia stato disciplinato non già da un regolamento o una direttiva comunitaria, cioè da regole capaci di vincolare i singoli cittadini dell’Unione, bensì da un apposito trattato multilaterale, cui hanno aderito gli Stati membri che dell’eurozona fanno parte. A questo livello, ogni Stato, nei rapporti con tutti gli altri Stati, non opera nella sua veste di ente dotato di sovranità (attributo che concerne il rapporto con i cittadini), comportandosi piuttosto alla stregua un soggetto privato tra altri suoi “pari”. Nel diritto internazionale opera come noto il principio “superiorem non recognoscens”, dunque non sorprende che il cd. meccanismo europeo di stabilità sia basato su un trattato che presenta forti similitudini con istituti privatistici, a conferma peraltro dell’osmosi sussistente in generale tra un ramo e l’altro del diritto, ed in ultima analisi del carattere unitario del diritto stesso, al di là dei settori in cui lo stesso è tradizionalmente compartimentato per fini didattici o accademici.
Le clausole del trattato sul MES appaiono in effetti ispirate ad una duplice matrice, ovvero da un lato ai meccanismi della governance e della “democrazia” (non rappresentativa bensì) societaria, dall’altro a quella della mutua assicurazione. Sotto il profilo strutturale, il MES è dotato di personalità giuridica propria (trattandosi di una istituzione finanziaria internazionale) ed ha uno “statuto” che presenta significative assonanze con quello delle società per azioni. E così per la governance e le regole di voto, da assumersi dal consiglio dei governatori (l’equivalente dell’assemblea dei soci) composto dai rappresentanti degli Stati aderenti (i “soci”), sulla base della regola della maggioranza, per la formazione della quale non opera il principio del voto capitario, bensì quello della proporzionalità alle quote di capitale versato (art. 4); per la nomina di un consiglio di amministrazione (art. 6); per la presenza di un fondo di dotazione, cioè di un capitale autorizzato (deliberato) e di un capitale versato (art. 8); per una disciplina del mancato pagamento delle quote (art. 4 co. 8) – sospensione del diritto di voto - uguale a quella prevista per i soci morosi delle società per azioni; per la possibilità di distribuire dividendi e profitti degli investimenti ai membri del MES allorché capitale e fondo di riserva risultino eccedenti rispetto agli scopi “statutari” (art. 23); per le regole su riserve, coperture di perdite, conti annuali, e così via.
Sul piano degli scopi, il trattato risponde invece alle esigenze delle mutue assicuratrici: anche se, come visto, non è affatto escluso il conseguimento di profitti e la distribuzione degli stessi ai partecipanti, la finalità ultima del MES non è certo lucrativa, quanto mutualistica. Ogni Stato dell’eurozona, partecipando all’organismo in questione, stipula una sorta di assicurazione, versando un contributo nella prospettiva di trovarsi forse un giorno nella condizione di beneficiare, in via diretta, dell’assistenza finanziaria del MES, o comunque di trarre indiretto vantaggio dalla stabilizzazione dell’intera zona euro.
Le similitudini con gli istituti privatistici, con il diritto societario e le mutue assicuratrici, si fermano però al livello dei rapporti tra gli Stati, non potendo ovviamente coinvolgere il rapporto verticale, tra ciascuno Stato e i propri cittadini. E questo spiega perché il MES non è (e non avrebbe potuto essere concepito come) un ente filantropico o di beneficienza, di assistenza disinteressata, come una azienda di erogazione: gli interventi di assistenza finanziaria sono infatti soggetti a una rigorosa “condizionalità”, i prestiti del MES fruiscono dello status di creditore privilegiato, l’assistenza finanziaria è subordinata a un programma di aggiustamento macroeconomico (che il membro MES che ha richiesto l’aiuto dovrà negoziare con la Commissione Europea), e a una valutazione di sostenibilità del debito pubblico.
In effetti, se un privato può al limite decidere di concedere prestiti a soggetti privi di merito creditizio, accettando senza problemi il rischio della mancata restituzione, o addirittura compiendo atti di rimessione del debito o rinuncia al credito (trattandosi di diritti patrimoniali, come tali disponibili), non altrettanto possono fare gli Stati e gli enti pubblici in genere. Uno Stato non può erogare fondi ad altri Stati “a fondo perduto”, senza valutare la concreta possibilità di restituzione, ed è per questo che appare oggi imbarazzante dover prendere atto della (altamente probabile) inesigibilità dei crediti erogati in passato alla Grecia, e che si sono poste condizioni molto stringenti cui subordinare il nuovo programma di aiuti. Col rischio peraltro che, nonostante tutto, si finisca per aggravare la situazione, erogando ulteriore credito ad un debitore già insolvente.
Per ragioni analoghe a quelle sottostanti alla cosiddetta “indisponibilità del crediti tributari” – per cui l’ente pubblico impositore non può tendenzialmente rinunciare a riscuotere i tributi dovuti, concedendo sconti o abbattimenti, dovendo rendere conto alla restante platea dei contribuenti che da ciò riceverebbe un pregiudizio - così gli Stati che, attraverso il MES, accordino aiuti finanziari nella logica mutuamente assicurativa di cui sopra, lo devono fare soltanto previa verifica positiva della “sostenibilità del debito pubblico” del membro in difficoltà: in caso contrario, l’aiuto finanziario perderebbe le sue caratteristiche creditizie, trasformandosi in un mero trasferimento o sussidio a fondo perduto.
Ma una logica puramente solidaristica di questo tipo, che pure alcuni ritengono auspicabile, non rientra nel novero delle forme di solidarietà contemplate dal diritto dell’Unione Europea, limitate ai casi dei richiedenti asilo, oppure a quello oggi previsto dall’art. 222 del Trattato di Lisbona, che prevede una clausola di solidarietà qualora uno Stato membro sia vittima di attacco terroristico o di calamità naturale. Non è invece affatto contemplata una solidarietà finanziaria nel senso in cui di solito intendiamo il termine, con riguardo ai trasferimenti monetari di risorse tra territori con diversa capacità fiscale, in modo da consentire a tutte le popolazioni analoghi livelli dei servizi, almeno di quelli essenziali .
Nel quadro dei rapporti tra Stati dell’UE o dell’eurozona, ciascuno Stato può contare sulle entrate fiscali attingibili nell’esercizio della propria sovranità nei confronti dei contribuenti assoggettati alla sua giurisdizione, ma non può certo contare né pretendere che altre collettività e gruppi sociali, prive di legami col suo territorio, contribuiscano e si facciano carico delle sue spese pubbliche e men che meno dei suoi deficit di bilancio.
Ed è questa la ragione, in definitiva, per cui ogni aiuto finanziario tra Stati (ancorché tutti appartenenti all’eurozona) non può mai diventare esplicitamente un trasferimento a fondo perduto, poiché verrebbero sovvertite regole consolidate da secoli, radicate nelle tradizioni costituzionali: e cioè il legame territoriale tra entrate fiscali e spesa pubblica. Una surrettizia trasformazione degli aiuti finanziari in trasferimenti già ex ante senza prospettiva di restituzione spezzerebbe il legame tra il dovere fiscale e il concorso alle spese pubbliche, giacché i contribuenti di una nazione si troverebbero a contribuire alle spese di altre collettività, come avevo evidenziato in un precedente post).
E’ questo il rischio oggi implicito nei nuovo piano di aiuti finanziari alla Grecia: e se vogliamo esprimerlo in termini di perdita di sovranità, la dovremmo allora riferire non allo Stato destinatario dell’aiuto, bensì a quelli erogatori, “costretti” a destinare le proprie entrate fiscali alla soddisfazione di bisogni di altre collettività. Quanto al deficit di democrazia del meccanismo di aiuti, se ne dovrebbero semmai lamentare i cittadini degli Stati creditori, chiamati a pagare tributi per far fronte a spese in deficit non deliberate dai propri rappresentanti e di cui essi non hanno beneficiato.
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