La reazione indignata per quella che è stata definita una “intollerabile elusione” perpetrata dalle imprese destinatarie dell’imposta straordinaria sugli extraprofitti, esposte all’odio popolare e addirittura minacciate con un inasprimento delle sanzioni per essersi sottratte agli obblighi di versamento, dovrebbe forse lasciare spazio a un atteggiamento più prudente e meno assertivo.
A quanto pare i versamenti dell’acconto risultano largamente inferiori al previsto, con un incasso pari appena al 20% di quanto era stato stimato dal Mef: ora, è possibile che i calcoli dei tecnici governativi fossero sovrastimati, anche perchè, in caso contrario, saremmo di fronte a un prelievo di entità abnorme e a una vera e propria stangata posta a carico di un ristretto gruppo di imprese, atteso che i 10,5 miliardi di euro preventivati ammontano a circa un terzo dell’intero gettito Ires!
Si può tuttavia ipotizzare che, al netto di eventuali sovrastime nel calcolo del gettito atteso, le minori entrate registrate siano effettivamente da ascriversi, per una parte più o meno significativa, a una deliberata sottrazione agli obblighi di versamento.
Se così fosse, non credo che questo comportamento possa essere biasimato, anzi appare tendenzialmente il più razionale e cautelativo per le ragioni delle imprese interessate dal prelievo.
In primo luogo, non va dimenticato che, come molti hanno notato (anche in questo blog), la norma che ha introdotto l’imposta sui c.d. “extraprofitti” realizzati dalle aziende energetiche non è affatto in grado di individuarli nemmeno per larghe approssimazioni, e dunque, per questa ed altre ragioni, presenta numerosi profili di incostituzionalità. In una situazione del genere, è ben possibile che i soggetti colpiti dal prelievo abbiano preferito non versare il tributo (fermo restando che lo stesso potrebbe essere regolarmente “dichiarato” come dovuto a consuntivo, con la dichiarazione Iva da presentare nel 2023), e quindi attendere la cartella di pagamento con l’intento di impugnarla davanti ai giudici tributari e in quella sede sollevare l’eccezione di incostituzionalità del tributo e chiedere nel contempo di sospenderne la riscossione. Il mancato versamento dell’imposta da parte delle imprese obbligate potrebbe cioè essere il semplice riflesso dell’insensibilità dimostrata dal Governo e dal Parlamento nei confronti delle tante criticità e dei dubbi di costituzionalità della norma, che sono stati del tutto ignorati e semmai aggravati a seguito dell’aumento dell’aliquota del prelievo (dal 10 al 25 per cento) ad opera del D.L. 50/2022.
In secondo luogo, non può essere trascurata l’influenza che può aver esercitato la sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2015, in cui i giudici, dopo aver rilevato l’incostituzionalità dell’addizionale Ires sulle aziende energetiche nota come “Robin Hood Tax”, sancirono inopinatamente, del tutto a sorpresa, la irretroattività degli effetti della sentenza e la sua valenza solo per il futuro, rendendo definitive e non rimborsabili le imposte già versate. Si pose a quel punto la questione di quale fosse la sorte delle imposte non versate in relazione agli anni di imposta anteriori al 2015: anche se l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto di poterle richiedere attraverso atti di accertamento, diverse commissioni tributarie hanno negato tale possibilità, giacché non può essere accertata un’imposta ormai sfornita di base legislativa, per essere stata la norma istitutiva dichiarata incostituzionale (come si legge in qualche sentenza, non si può chiedere ai giudici tributari di “resuscitare un morto”).
In questo scenario, è evidente che per un’impresa il comportamento più prudente e attento ai diritti dei suoi azionisti potrebbe essere proprio quello di non versare l’imposta, confidando in una pronuncia di incostituzionalità della legge istitutiva del prelievo e ponendosi al tempo stesso al riparo dal rischio di una riedizione della sentenza sulla “Robin Tax”, cioè di una pronuncia di incostituzionalità priva di effetti sul piano della rimborsabilità del tributo. Un monstrum giuridico, qual è la sentenza n. 10/2015, non poteva che produrre frutti avvelenati.
Alla luce di ciò la mirata stretta sulle sanzioni che si va profilando, con accorciamento dei tempi per il ravvedimento operoso (versamento tardivo) e la riduzione dell’abbattimento sanzionatorio ottenibile, potrebbe non sortire alcun effetto e prestarsi a sua volta a censure di compatibilità ordinamentale.
Sul piano effettuale, non si vede perché un’impresa che ha scelto come strategia di non versare l’imposta, onde attendere l’atto della riscossione e impugnarlo per sollevare la questione di costituzionalità della norma, dovrebbe poi versare l’imposta in sede di ravvedimento operoso. Avrebbe al più senso farlo laddove il mancato versamento non risponda a una strategia deliberata ma ad altri fattori, come una (temporanea) crisi di liquidità: l’inasprimento sanzionatorio rischierebbe così di colpire dei soggetti posti in difficoltà dal gravoso onere finanziario di un prelievo inaspettato, il che non mi pare un obiettivo commendevole.
Sul piano ordinamentale, un intervento in senso peggiorativo, con carattere selettivo, sui meccanismi del ravvedimento operoso, modificherebbe in peius il quadro sanzionatorio con riferimento a violazioni già commesse, ponendosi così in contrasto sia con il principio di irretroattività delle sanzioni, che trova copertura costituzionale, sia con il principio di uguaglianza e quello di proporzionalità cui le norme sanzionatorie devono conformarsi: perché mai proprio la violazione degli obblighi di versamento connessi all’imposta straordinaria sugli extraprofitti dovrebbe essere sanzionata più pesantemente rispetto ad altre omologhe violazioni, dato che non vi è alcun elemento di particolare disvalore (ad esempio, la presenza di frodi) nei mancati versamenti relativi alla fattispecie in esame?
Gli interventi annunciati da un Governo al crepuscolo sembrano insomma più una reazione indispettita e collerica a un inaspettato “buco” nel gettito che una risposta razionale a un problema che dipende anzitutto dall’aver escogitato una fonte di entrate sorretta da meccanismi approssimativi e irrispettosi delle regole costituzionali sulla tassazione, prima di tutto gli artt. 3 e 53 Cost.. Non basta certo la denominazione di “contributo straordinario” attribuita al prelievo, come pure qualche sottosegretario ha pubblicamente affermato, a mutarne la natura giuridica: è fuori discussione che si tratti di un’imposta, e non è affatto detto la sua “straordinarietà” riuscirà a convincere i giudici costituzionali della sua conformità a Costituzione.