Nel programma del candicato alle primarie socialiste Benoit Hamon figura la tassazione dei robot (Creéation d’une taxe sur les robots), con utilizzo dell’extragettito per finanziare misure di sicurezza e protezione sociale.
Il proposito di Hamon, come risulta dal suo sito elettorale, è il seguente: “Creerò una tassa sulle ricchezze create dai robot al fine di finanziare la nostra protezione sociale. Allorché un lavoratore/lavoratrice vengono rimpiazzati da una macchina, la ricchezza generata affluisce essenzialmente agli azionisti. Propongo dunque di tassare questa ricchezza - applicando la contribuzione sociale sul totale del valore aggiunto e non più solamente sull’ammontare delle retribuzioni - affinché questa finanzi prioritariamente misure come il reddito di cittadinanza piuttosto che i dividendi”.
Siamo così tornati al socialismo utopistico, e in effetti il prelievo fiscale immaginato da Hamon appare di problematica se non impossibile realizzazione.
La cifra di una proposta del genere è il velleitarismo, anzitutto nel presupposto impositivo. Il “rimpiazzo” di lavoratori da parte di macchine non è traducibile in termini normativi: non c’è un robot che entra in fabbrica al posto di un operaio, semmai ci sono dei processi di innovazione tecnologica e investimenti che possono portare a maggiore automatizzazione, a mutamenti nei processi produttivi e a una diminuità necessità di forza lavoro. Questa può tuttavia trovare concreta esplicazione in tante maniere: attraverso un mancato turnover, con la mancata assunzione di lavoratori che altrimenti sarebbero stati assunti, con dismissioni di alcuni e rafforzamento di altri rami di attività, e così via. D’altra parte, potrebbero sorgere nuove imprese già dotate tecnologicamente, senza dover rimpiazzare alcun lavoratore preesistente. E tali imprese potrebbero “gemmare” da imprese preesistenti, attraverso scorpori, conferimenti, scissioni e così via.
In tutte queste situazioni, quali sarebbero i presupposti per far scattare l’aggravio di contribuzione? A tutto concedere gli stessi dovrebbero essere individuati in indici grossolani, quali ad esempio la diminuzione del numero medio di addetti rispetto a un precedente periodo di osservazione, o un aumento degli investimenti tecnologici (e comunque sarebbero inapplicabili a imprese neocostituite).
Ma nel primo caso ciò avrebbe l’effetto di rendere ancor più problematica l’assunzione di lavoratori (posto che un successivo calo del personale darebbe luogo a penalizzazioni aggiuntive), e nel secondo caso ostacolerebbe i processi di innovazione tecnologica (ma forse è proprio ciò che vogliono i socialisti francesi).
Non vedo insomma come un tributo (o contribuzione sociale aggiuntiva) come quello ipotizzato da Hamon potrebbe mai essere implementato, se non a costo di innumerevoli distorsioni, di un calo della produttività degli addetti, e quindi anche dei loro salari reali.
E anche se si riuscisse nell’impresa di “tassare i robot”, si finirebbe per introdurrebbe una differenziazione di aliquote (fiscali e/ contributive) in funzione di un parametro non solo intraducibile in norme di legge, ma altresì in ogni caso non necessariamente espressivo di una maggiore capacità economica. Se il “rimpiazzo” di lavoratori con robot è in grado di aumentare gli utili dell’impresa, questi maggiori utili già verranno tassati con le imposte esistenti, mentre postulare aggravi di tassazione “progressivi” implica dimostrare una maggiore capacità di contribuire di utili di maggiore entità, il che ha sempre posto una serie di problemi tendenzialmente insormontabili, fin dai tempi in cui di discuteva delle excess profits taxes ai tempi di Roosevelt.
Dietro al progetto di Hamon c’è un’idea chiaramente anticapitalistica, una volontà di punire i presunti extraprofitti (calcolati come e rispetto a che cosa?), le imprese più efficienti e che investono in tecnologia. E c’è altresì una visione miope e retriva dell’investimento azionario: i soci che beneficerebbero in tesi dei maggiori dividendi potrebbero anche essere una moltitudine di piccoli risparmiatori, e non necessariamente dei plutocrati cattivi.
L’innovazione tecnologica è parte integrante della “distruzione creatrice”, e certo le politiche pubbliche dovranno farsi carico del ripensamento e riprogettazione dei sistemi educativi, di ri-qualificazione professionale, di politiche attive del mercato del lavoro. Non sarà invece con il ritorno al socialismo utopistico e con velleitarie e inattuabili “tasse sui robot” che si potranno vincere queste sfide.
Riflessioni e commenti su tassazione, politiche fiscali ed economia pubblica. A volte anche su altri temi di attualità
giovedì 26 gennaio 2017
domenica 22 gennaio 2017
Border Adjustment Tax, anatomia (con prognosi infausta) di un tributo
Nel programma di riforme fiscali del Partito Repubblicano Usa, condensato nel blueprint del luglio 2016, spicca la trasformazione dell’imposta sul reddito di imprese e società di capitali in una cash flow tax, cioè un tributo che ammette la deduzione immediata delle spese di investimento (anziché attraverso il processo di ammortamento), limitando peraltro la deducibilità degli interessi passivi “netti”.
L’aspetto più controverso riguarda tuttavia il cosiddetto border adjustment (aggiustamento al confine), cioè la detassazione dei ricavi da esportazione, e l’indeducibilità dei costi dei beni importati.
Apparentemente, questo “aggiustamento” avvicinerebbe la legislazione degli Stati Uniti a quella dei Paesi che applicano un’imposta sul valore aggiunto (Value Added Tax, come l'Iva italiana e quella degli altri Stati dell’UE). Gli Usa non hanno infatti mai implementato, a livello federale, un’imposta indiretta sul valore aggiunto paragonabile all’Iva europea, mentre le sales taxes applicate dalla maggior parte dei 50 Stati sono imposte monofase, prelevate soltanto allo stadio della vendita al dettaglio.
Nelle imposte sul valore aggiunto come quella europea, tuttavia, il principio di “destinazione” (destination based) è coerente con la loro natura di imposte indirette sul consumo. Al di là della sua applicazione a tutti i passaggi intermedi della catena produttivo-distributiva, infatti, l’Iva è strutturalmente concepita per incidere i consumatori finali, dunque il border adjustment (restituire l’Iva all’esportazione, applicarla all’importazione) dipende dal fatto che i beni esportati non saranno oggetto di consumo sul territorio, e che al contrario lo saranno quelli importati. L’imposta sul valore aggiunto si applica dunque a tutti i consumi che avvengono nel territorio dello Stato, indipendentemente dal luogo di produzione dei beni: ad esempio, tutte le vendite in Italia, di beni domestici o di beni importati, scontano un’identica tassazione. All’opposto, i beni oggetto di esportazione, che saranno consumati da privati residenti in altri Paesi, non scontano l’imposta nel luogo di origine, ma la sconteranno in quello di destinazione. Appunto, del tutto coerentemente con la natura di imposta sui consumi.
Si noti che, nell’imposta sul valore aggiunto, non vi è alcuna discriminazione dei produttori che dipenda dal luogo di stabilimento, né alcun differenziale di tassazione legato alla provenienza del bene. Un bene di produzione domestica venduto in Italia sconta la stessa imposta di un bene importato.
La DBCFT (destination-based-cash-flow-tax) immaginata dal GOP produrrebbe invece effetti assai diversi, non avendo le caratteristiche di neutralità riconoscibili alle imposte indirette sul valore aggiunto.
Il punto è che la destination based tax prefigurata nel su citato blueprint costituisce una evoluzione della business tax, che è un’imposta sul reddito. L’imposta riformata, dalla cui base imponibile sarebbero tra l'altro deducibili i salari e gli investimenti, sarebbe pagata dall’impresa (senza essere oggetto di rivalsa nei confronti del cessionario dei beni come accade con la VAT), su un risultato economico da cui sarebbero esclusi i ricavi da esportazione, e in cui non rileverebbero i costi per i beni importati, data la loro indeducibilità.
Anziché tassare il reddito prodotto negli Usa, verrebbe tassato un "valore aggiunto” - ancorché prodotto all’estero - destinato ad alimentare consumi sul territorio americano.
Con alcuni importanti effetti distorsivi.
Anzitutto, la nuova destination based tax discriminerebbe i produttori esteri rispetto a quelli domestici, dato che ai beni importati si applicherebbe un’imposta (pari al 20 per cento) sul valore in dogana, sotto forma di indeducibilità del costo per l’impresa americana importatrice. Insomma, mentre un bene prodotto e venduto internamente sconterebbe l’imposta soltanto sull’effettivo valore aggiunto nei diversi passaggi della supply chain (ricavi meno costi), un bene importato subirebbe una doppia imposizione: quella applicata dallo Stato estero del produttore sul valore aggiunto incorporato nel prezzo del bene all’atto dell’importazione, e quella applicata negli Usa sull’intero valore aggiunto, compreso quello estero già tassato nello Stato di origine. Questa distorsione non si verifica, al contrario, nei rapporti tra Stati che applicato la VAT, dato che l’applicazione del tributo all’importazione si coniuga con la detassazione all’esportazione.
La DBCFT americana, dunque, darebbe luogo a una misura sostanzialmente protezionistica, favorendo le produzioni domestiche rispetto a quelle di origine estera.
Dall’altro lato, la non tassazione dei ricavi di beni venduti all’estero equivale a un sussidio all’esportazione, che ovviamente potrebbe favorire le imprese con sede negli Usa rispetto ai concorrenti esteri, dando altresì luogo a differenziali di trattamento tra le stesse imprese americane, favorendo quelle che esportano rispetto a quelle che producono per il mercato interno e/o utilizzano beni di importazione.
L’inedita scelta di inserire nell’ambito di una business tax logiche tipiche dell’imposta sul consumo non resterà dunque senza conseguenze sul piano degli scambi internazionali, anche a prescindere dalla probabile rivalutazione della valuta americana da molti pronosticata quale conseguenza del futuro assetto impositivo.
Mi sembra infine tutto da dimostrare che il nuovo "principio di destinazione” e le altre modifiche alla business tax siano in grado di trasformarla in una imposta indiretta, come si sostiene nel blueprint del Partito Repubblicano. Il tributo continuerebbe infatti a insistere su una diretta manifestazione di capacità economica, sarebbe privo della rivalsa giuridica, e anche la traslazione economica sugli acquirenti sarebbe problematica se non impossibile, dato il calcolo del tributo a consuntivo (come avviene con l’Irap italiana).
Se non venisse accolto l’inquadramento della nuova DBCFT tra le imposte indirette gli effetti sarebbero dirompenti: non solo sul piano internazionale, dato che le regole WTO non ammettono il border adjustment se non per le imposte indirette sul valore aggiunto, ma altresì potenzialmente sul piano interno: vige infatti nell’ordinamento statunitense il divieto costituzionale per lo Stato federale di introdurre “direct taxes” se non con il vincolo dell’apportionment, cioè della ripartizione del gettito tra gli Stati sulla base della popolazione.
L’unica eccezione, che si deve al XVI emendamento, è rappresentata dall’imposta sul reddito: dunque esiste il rischio che un’imposta sul valore aggiunto consumato (con detassazione degli investimenti e dunque del risparmio), che escluda i ricavi dei beni esportati e non consenta la deduzione dei costi di quelli importati, come la DBCFT sopra descritta, non sia più un’imposta sul reddito, pur rimanendo un’imposta “diretta” (una direct-consumption tax, secondo l’espressione di E.M. Jansen). In tal caso l’imposta immaginata dal GOP sarebbe irrealizzabile, a meno che gli Usa non vogliano tornare alle ottocentesche imposte di ripartizione.
L’aspetto più controverso riguarda tuttavia il cosiddetto border adjustment (aggiustamento al confine), cioè la detassazione dei ricavi da esportazione, e l’indeducibilità dei costi dei beni importati.
Apparentemente, questo “aggiustamento” avvicinerebbe la legislazione degli Stati Uniti a quella dei Paesi che applicano un’imposta sul valore aggiunto (Value Added Tax, come l'Iva italiana e quella degli altri Stati dell’UE). Gli Usa non hanno infatti mai implementato, a livello federale, un’imposta indiretta sul valore aggiunto paragonabile all’Iva europea, mentre le sales taxes applicate dalla maggior parte dei 50 Stati sono imposte monofase, prelevate soltanto allo stadio della vendita al dettaglio.
Nelle imposte sul valore aggiunto come quella europea, tuttavia, il principio di “destinazione” (destination based) è coerente con la loro natura di imposte indirette sul consumo. Al di là della sua applicazione a tutti i passaggi intermedi della catena produttivo-distributiva, infatti, l’Iva è strutturalmente concepita per incidere i consumatori finali, dunque il border adjustment (restituire l’Iva all’esportazione, applicarla all’importazione) dipende dal fatto che i beni esportati non saranno oggetto di consumo sul territorio, e che al contrario lo saranno quelli importati. L’imposta sul valore aggiunto si applica dunque a tutti i consumi che avvengono nel territorio dello Stato, indipendentemente dal luogo di produzione dei beni: ad esempio, tutte le vendite in Italia, di beni domestici o di beni importati, scontano un’identica tassazione. All’opposto, i beni oggetto di esportazione, che saranno consumati da privati residenti in altri Paesi, non scontano l’imposta nel luogo di origine, ma la sconteranno in quello di destinazione. Appunto, del tutto coerentemente con la natura di imposta sui consumi.
Si noti che, nell’imposta sul valore aggiunto, non vi è alcuna discriminazione dei produttori che dipenda dal luogo di stabilimento, né alcun differenziale di tassazione legato alla provenienza del bene. Un bene di produzione domestica venduto in Italia sconta la stessa imposta di un bene importato.
La DBCFT (destination-based-cash-flow-tax) immaginata dal GOP produrrebbe invece effetti assai diversi, non avendo le caratteristiche di neutralità riconoscibili alle imposte indirette sul valore aggiunto.
Il punto è che la destination based tax prefigurata nel su citato blueprint costituisce una evoluzione della business tax, che è un’imposta sul reddito. L’imposta riformata, dalla cui base imponibile sarebbero tra l'altro deducibili i salari e gli investimenti, sarebbe pagata dall’impresa (senza essere oggetto di rivalsa nei confronti del cessionario dei beni come accade con la VAT), su un risultato economico da cui sarebbero esclusi i ricavi da esportazione, e in cui non rileverebbero i costi per i beni importati, data la loro indeducibilità.
Anziché tassare il reddito prodotto negli Usa, verrebbe tassato un "valore aggiunto” - ancorché prodotto all’estero - destinato ad alimentare consumi sul territorio americano.
Con alcuni importanti effetti distorsivi.
Anzitutto, la nuova destination based tax discriminerebbe i produttori esteri rispetto a quelli domestici, dato che ai beni importati si applicherebbe un’imposta (pari al 20 per cento) sul valore in dogana, sotto forma di indeducibilità del costo per l’impresa americana importatrice. Insomma, mentre un bene prodotto e venduto internamente sconterebbe l’imposta soltanto sull’effettivo valore aggiunto nei diversi passaggi della supply chain (ricavi meno costi), un bene importato subirebbe una doppia imposizione: quella applicata dallo Stato estero del produttore sul valore aggiunto incorporato nel prezzo del bene all’atto dell’importazione, e quella applicata negli Usa sull’intero valore aggiunto, compreso quello estero già tassato nello Stato di origine. Questa distorsione non si verifica, al contrario, nei rapporti tra Stati che applicato la VAT, dato che l’applicazione del tributo all’importazione si coniuga con la detassazione all’esportazione.
La DBCFT americana, dunque, darebbe luogo a una misura sostanzialmente protezionistica, favorendo le produzioni domestiche rispetto a quelle di origine estera.
Dall’altro lato, la non tassazione dei ricavi di beni venduti all’estero equivale a un sussidio all’esportazione, che ovviamente potrebbe favorire le imprese con sede negli Usa rispetto ai concorrenti esteri, dando altresì luogo a differenziali di trattamento tra le stesse imprese americane, favorendo quelle che esportano rispetto a quelle che producono per il mercato interno e/o utilizzano beni di importazione.
L’inedita scelta di inserire nell’ambito di una business tax logiche tipiche dell’imposta sul consumo non resterà dunque senza conseguenze sul piano degli scambi internazionali, anche a prescindere dalla probabile rivalutazione della valuta americana da molti pronosticata quale conseguenza del futuro assetto impositivo.
Mi sembra infine tutto da dimostrare che il nuovo "principio di destinazione” e le altre modifiche alla business tax siano in grado di trasformarla in una imposta indiretta, come si sostiene nel blueprint del Partito Repubblicano. Il tributo continuerebbe infatti a insistere su una diretta manifestazione di capacità economica, sarebbe privo della rivalsa giuridica, e anche la traslazione economica sugli acquirenti sarebbe problematica se non impossibile, dato il calcolo del tributo a consuntivo (come avviene con l’Irap italiana).
Se non venisse accolto l’inquadramento della nuova DBCFT tra le imposte indirette gli effetti sarebbero dirompenti: non solo sul piano internazionale, dato che le regole WTO non ammettono il border adjustment se non per le imposte indirette sul valore aggiunto, ma altresì potenzialmente sul piano interno: vige infatti nell’ordinamento statunitense il divieto costituzionale per lo Stato federale di introdurre “direct taxes” se non con il vincolo dell’apportionment, cioè della ripartizione del gettito tra gli Stati sulla base della popolazione.
L’unica eccezione, che si deve al XVI emendamento, è rappresentata dall’imposta sul reddito: dunque esiste il rischio che un’imposta sul valore aggiunto consumato (con detassazione degli investimenti e dunque del risparmio), che escluda i ricavi dei beni esportati e non consenta la deduzione dei costi di quelli importati, come la DBCFT sopra descritta, non sia più un’imposta sul reddito, pur rimanendo un’imposta “diretta” (una direct-consumption tax, secondo l’espressione di E.M. Jansen). In tal caso l’imposta immaginata dal GOP sarebbe irrealizzabile, a meno che gli Usa non vogliano tornare alle ottocentesche imposte di ripartizione.
sabato 14 gennaio 2017
Flat tax e “determinazione dei tributi"
Alcuni commentatori ritengono che ogni ipotesi di flat tax (in breve, un’imposta sul reddito ad aliquota proporzionale con esenzione alla base dei redditi di sussistenza), intervenendo soltanto sulle aliquote, avrebbe un impatto distributivo, ma nessuna incidenza sulla “determinazione dei tributi”. Si tratterebbe dunque, rispetto ai problemi che affliggono il nostro sistema fiscale, di poco più che un diversivo.
L’espressione “determinazione dei tributi”, nella sua vaghezza, sembra alludere almeno a tre problemi, distinti ma tra loro intrecciati: le regole sostanziali di determinazione delle basi imponibili; i meccanismi di individuazione e segnalazione della ricchezza da tassare; i controlli fiscali in relazione alle diverse possibilità di evasione, e lo stesso impatto su convenienza e propensione all’evasione di un taglio alle aliquote marginali.
L’obiezione di cui sopra, tuttavia, sembra scontare una insufficiente riflessione sul tema, ed è alla prova dei fatti largamente infondata.
E così, se si prende ad esempio a modello la flat tax di Hall e Rabushka, cioè un’imposta sul reddito-consumo che detassa gli investimenti e fa larghissimo uso della tassazione alla fonte, sono evidentissimi gli impatti sulla compliance, i meccanismi di segnalazione, il tipo di “base imponibile”.
Ma anche restando a una flat tax nella cornice tradizionale del reddito-prodotto, cioè senza stravolgimento delle attuali regole per determinare i redditi di categoria assoggettati ad Irpef (come ho ipotizzato in “Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax”), valgono considerazioni analoghe. Sulla “determinazione dei tributi” la flat tax avrebbe tra l'altro, in ordine sparso, i seguenti effetti.
Quanto alla determinazione degli imponibili, vi sarebbe anzitutto la sparizione di tutte o quasi tutte le tax expenditure. Nella determinazione del clear income non entrerebbero più deduzioni o detrazioni per spese mediche, ristrutturazioni edilizie, interessi passivi sui mutui, palestre, corsi di frequenza universitaria, spese veterinarie, e via discorrendo. Ne risulterebbe così anche un risparmio di energie amministrative per i controlli documentali condotti a norma dell’art. 36-ter del Dpr 600/1973, e ovviamente una semplificazione per la vita dei privati non più costretti a conservare documenti per anni e subire i fastidi dei controlli.
In secondo luogo, la flat tax metterebbe fine alla ricerca di arbitraggi sulle aliquote, con immediate conseguenze su una serie di normative, spesso demenziali, di cui ci potremmo finalmente liberare: si pensi a quella sulle società di comodo, sui redditi figurativi nel caso di utilizzo di beni sociali da parte dei soci, sulla indeducibilità dei compensi erogati al coniuge o ai figli dell’imprenditore, sui limiti di imputabilità dei redditi ai collaboratori dell’impresa familiare, su trust trasparenti o non trasparenti, sulla neonata IRI per imprese individuali e società di persone che porrà a breve una serie di problemi ad oggi ampiamente sottovalutati (si pensi alla collocazione di consumi privati a livello societario, per evitare il “secondo” prelievo progressivo, e agli inevitabili controlli che l’AF dovrà attivare).
Sparirebbe la necessità di tassare i dividendi e i capital gains, le normative sull’affrancamento del valore delle partecipazioni, le perizie giurate e i connessi oneri di documentazione e controllo.
Vi sarebbe poi verosimilmente un diminuito uso di società-contenitore, trust e altre strutture intermedie, con riduzione del numero dei soggetti da controllare.
La flat tax ha poi un impatto sull’unità impositiva, essendo neutrale rispetto alla tassazione dell’individuo o della famiglia (tema che il nostro ordinamento ha accantonato, senza mai giungere a una soluzione dai lontani tempi della scomparsa del cd. “ cumulo dei redditi” della famiglia). Scomparirebbero splitting, intestazioni di comodo di redditi da cespite, discriminazioni nella tassazione delle famiglie a seconda del numero di componenti titolari di reddito, etc.
Verrebbe finalmente attuato l’art. 53 Cost con esenzione universale del “minimo vitale”, anche sotto questo profilo incidendo sulla determinazione del clear income (cioè della base imponibile).
L’unicità dell’aliquota consentirebbe di superare la segregazione delle perdite ai fini della loro libera compensabilità da redditi di altre categorie, gli incentivi a “trasformare” redditi assoggettati ad aliquote progressive in redditi tassati in modo cedolare, le demenziali controversie sulla indeducibilità dei compensi agli amministratori, l’uso di società di capitali per percepire compensi di spettanza “individuale”, le distorsioni nelle scelte delle forme di esercizio dell’impresa, e così via.
Vi sarebbe poi un impatto sull’efficienza dell’imposta, con scomparsa dell’effetto-sostituzione, e indirettamente sulla propensione all’evasione da parte di imprenditori e autonomi, che certo dipende da molti fattori (in primis dalla percezione del rischio di un controllo), ma tra questi anche da aliquote marginali elevate.
Se insomma si considera più in generale la semplificazione della compliance, la riduzione dei controlli, lo sfrondamento di normative dirigistiche e ipercorrettismi, i più che probabili benefici in termini di offerta di lavoro e diminuita propensione all’evasione, il ripristino dell’equità orizzontale (l’uguale trattamento di diverse categorie di reddito e classi sociali), l’introduzione di una universale esenzione dei basic income, e altro ancora, siamo proprio sicuri che la flat tax non incida sulla “determinazione dei tributi” e sia solo un diversivo?
venerdì 13 gennaio 2017
Debito pubblico e imposte
La citazione su Twitter di un brano del trattato di scienza delle finanze di Leroy-Beaulieu (fine XIX secolo), secondo cui il debito pubblico, nella misura in cui non è garantito da entrate demaniali (le “entrate originarie” della ormai residuale "finanza patrimoniale”) equivale a una anticipazione di tributi, ha innescato una sterile polemica basata sul seguente assunto: la drastica riduzione del rapporto debito/PIL riscontrabile in Paesi come l’Inghiliterra nel corso del XIX secolo, non sarebbe affatto imputabile a un aumento del gettito fiscale, bensì a un aumento del PIL.
Ora, in verità, l’andamento del rapporto debito/Pil non fornisce indicazioni decisive sulle variazioni dei due termini del rapporto; quest’ultimo può migliorare, anche in caso di aumento del debito, se vi è una crescita più che proporzionale del Pil, ma può migliorare anche per l’effetto combinato di un aumento del Pil e di una diminuzione del debito. In Inghilterra, proprio all’inizio del XIX secolo, venne introdotta l’imposta sul reddito, e in sua assenza lo stock di debito sarebbe aumentato di più o non sarebbe diminuito in pari misura.
Il punto vero, però, è che l’obiezione su riportata è indicativa della difficoltà di mantenere il discorso pubblico su binari di razionalità e coerenza, per la diffusa tendenza degli interlocutori a spostare continuamente il piano della discussione.
Che il debito pubblico rappresenti una causa di assorbimento del futuro gettito fiscale, resta infatti vero a prescindere dall’andamento del rapporto debito/Pil. Ogni ammontare di debito, piccolo o grande che sia, implica l’impiego di una parte del gettito tributario degli anni a venire (sempre che lo Stato non disponga di risorse demaniali con cui farvi fronte). E ciò non solo per l’eventualità di una riduzione dello stock del debito (che a torto viene da molti esclusa anche solo come ipotesi astratta, pare secondo una legge non scritta secondo cui il debito pubblico sarebbe sempre destinato a salire in valore assoluto), ma altresì per il pagamento degli interessi sul debito stesso.
L’affermazione di Leroy-Beaulieu è dunque ancora attuale: non c’è dubbio che nella sostenibilità dei conti pubblici rileva più il rapporto col Pil che la dimensione assoluta del debito, come pure che nella valutazione dell’efficacia delle politiche pubbliche rileva l’utilizzo a fini più o meno produttivi che verrà fatto con le risorse prelevate a debito.
Non deve tuttavia essere dimenticato che le entrate pubbliche restano sempre quelle evocate all’inizio: le entrate "originarie” demaniali, e le entrate “derivate” di origine fiscale, tratte dalle ricchezze della collettività. Mentre il debito, appunto, non è altro che una anticipazione di queste ultime, che vengono con la sua accensione ipotecate in anticipo (senza che ciò implichi alcun giudizio di valore su questa scelta, che dipende da tanti fattori).
Rimane ovviamente, rispetto al XIX secolo in cui il corso forzoso e la moneta “legale” erano agli albori, l’ipotesi della monetizzazione del debito, prima o poi è destinata a tradursi in quella che molti definiscono “imposta da inflazione”. Ma questo rischia di accendere un’altra polemica, meglio fermarsi qui.
mercoledì 11 gennaio 2017
Cittadini, contribuenti, anzi sudditi
L’assetto dei rapporti tra Stato ed amministrati, e la concezione che lo Stato ha di se stesso, si vede da tante piccole cose, ad esempio da una normetta processuale che qualche tempo fa dispose il raddoppio del "contributo unificato" (quello versato a copertura delle spese di giustizia da chi formula una domanda di tutela giurisdizionale), a carico del soggetto che - avendo impugnato una sentenza in appello o in Cassazione - è poi risultato soccombente.
Si tratta di una disposizione che ha una funzione dissuasiva rispetto alla proposizione di impugnazioni processuali, dal profilo larvatamente sanzionatorio, che presta tuttavia il fianco a numerose critiche.
Tra queste, in primo luogo, il suo carattere meccanico: un’impugnazione, solo perché non coronata da successo, non diventa per questo motivo pretestuosa, temeraria, sintomatica di un “abuso del processo”. Se si voleva introdurre uno strumento dissuasivo nei confronti di impugnazioni dilatorie o strumentali, si doveva attribuire al giudice uno specifico potere di accertarlo, come peraltro accade con la condanna alle spese processuali e alle ulteriori somme previste dall’art. 96 cpc. Altrimenti, resta la sensazione di un ostacolo irragionevole al diritto alla difesa (art. 24 Cost.).
In secondo luogo, atteso che la giurisprudenza (Cass. a sez. unite, n. 9930/2014; Corte Cost., n. 120/2016) attribuisce anche al contributo unificato “raddoppiato” natura tributaria, di ristoro dei costi sostenuti per il funzionamento della macchina giudiziaria, non si vede perché correlare l’importo da pagare all’esito dell’iniziativa: un processo non costa di più soltanto perché chi ha proposto la domanda se l’è vista respingere. Anche in caso di vittoria in giudizio il costo sarebbe infatti identico.
La verità è che il Ministero e l’autorità giudiziaria (per le sezioni unite della Cassazione “la finalità deflattiva e sanzionatoria della nuova norma non vale certamente a modificarne la sostanziale natura di tributo”) non si avvedono della contraddittorietà delle loro affermazioni: se il “raddoppio” del contributo ha natura tributaria, cioè serve istituzionalmente a procurare risorse all’ente pubblico, non può al tempo stesso avere una finalità sanzionatoria; se invece si tratta di una sanzione, questa non serve a procurare risorse ma a dissuadere dal porre in essere un certo comportamento.
L’aspetto più paradossale della vicenda è però un altro: ovvero la presunta inapplicabilità del raddoppio alle Pubbliche Amministrazioni che stanno in giudizio (ad esempio, l’Agenzia delle Entrate che, soccombente in primo grado, ricorre in appello). Per il Ministero della Giustizia e la Corte di Cassazione, lo Stato e le PA non sarebbero tenute a versare imposte o tasse che gravano sul processo, per la ragione che lo Stato verrebbe ad essere al tempo stesso debitore e creditore di se stesso.
Ora, a parte che se questo fosse vero non si capirebbe allora il senso di numerosissimi istituti, dalle ritenute dirette irpef sui dipendenti statali a quelle sugli interessi dei titoli di Stato, dall’assoggettamento ad Irap delle Pubbliche Amministrazioni all’applicabilità dell’Iva su prestazioni rese da enti pubblici, e così via, la posizione in questione sembra un residuato dell’assolutismo, in cui lo Stato era un monoblocco e non un ente articolato che svolge funzioni diversificate corrispondenti alla divisione dei poteri.
Lo Stato che rende giustizia, e svolge una funzione giurisdizionale i cui costi devono essere coperti almeno pro quota dalle parti in causa, non è identificabile con la Pubblica Amministrazione che sta in giudizio. Altrimenti dovremmo anche dire che lo Stato giudica se stesso, rinnegare la divisione dei poteri e l’indipendenza della magistratura, nonché le scelte fatte nel XIX secolo sulla giustiziabilità degli atti amministrativi, sulla creazione del giudice amministrativo (Consiglio di Stato e TAR), sulla natura giurisdizionale delle commissioni tributarie, e altro ancora.
E poi, soprattutto, se la funzione del raddoppio del contributo unificato è dissuasiva, onde evitare impugnazioni strumentali, dilatorie e infondate, non si vede perché la stessa non dovrebbe operare - direi, a maggior ragione - nei riguardi della Pubblica Amministrazione, come utile parametro di valutazione dell’operato dei suoi funzionari, e di controllo democratico del modo in cui le risorse dei contribuenti vengono spese.
Per le nostre autorità, invece, la Pubblica Amministrazione può impugnare sentenze sfavorevoli anche in modo palesemente pretestuoso senza subire alcun pregiudizio, mentre i privati, solo perché per avventura soccombenti in appello, dovranno in ogni caso corrispondere questo asimmetrico e “mostruoso” tributo-sanzione.
Si tratta di una disposizione che ha una funzione dissuasiva rispetto alla proposizione di impugnazioni processuali, dal profilo larvatamente sanzionatorio, che presta tuttavia il fianco a numerose critiche.
Tra queste, in primo luogo, il suo carattere meccanico: un’impugnazione, solo perché non coronata da successo, non diventa per questo motivo pretestuosa, temeraria, sintomatica di un “abuso del processo”. Se si voleva introdurre uno strumento dissuasivo nei confronti di impugnazioni dilatorie o strumentali, si doveva attribuire al giudice uno specifico potere di accertarlo, come peraltro accade con la condanna alle spese processuali e alle ulteriori somme previste dall’art. 96 cpc. Altrimenti, resta la sensazione di un ostacolo irragionevole al diritto alla difesa (art. 24 Cost.).
In secondo luogo, atteso che la giurisprudenza (Cass. a sez. unite, n. 9930/2014; Corte Cost., n. 120/2016) attribuisce anche al contributo unificato “raddoppiato” natura tributaria, di ristoro dei costi sostenuti per il funzionamento della macchina giudiziaria, non si vede perché correlare l’importo da pagare all’esito dell’iniziativa: un processo non costa di più soltanto perché chi ha proposto la domanda se l’è vista respingere. Anche in caso di vittoria in giudizio il costo sarebbe infatti identico.
La verità è che il Ministero e l’autorità giudiziaria (per le sezioni unite della Cassazione “la finalità deflattiva e sanzionatoria della nuova norma non vale certamente a modificarne la sostanziale natura di tributo”) non si avvedono della contraddittorietà delle loro affermazioni: se il “raddoppio” del contributo ha natura tributaria, cioè serve istituzionalmente a procurare risorse all’ente pubblico, non può al tempo stesso avere una finalità sanzionatoria; se invece si tratta di una sanzione, questa non serve a procurare risorse ma a dissuadere dal porre in essere un certo comportamento.
L’aspetto più paradossale della vicenda è però un altro: ovvero la presunta inapplicabilità del raddoppio alle Pubbliche Amministrazioni che stanno in giudizio (ad esempio, l’Agenzia delle Entrate che, soccombente in primo grado, ricorre in appello). Per il Ministero della Giustizia e la Corte di Cassazione, lo Stato e le PA non sarebbero tenute a versare imposte o tasse che gravano sul processo, per la ragione che lo Stato verrebbe ad essere al tempo stesso debitore e creditore di se stesso.
Ora, a parte che se questo fosse vero non si capirebbe allora il senso di numerosissimi istituti, dalle ritenute dirette irpef sui dipendenti statali a quelle sugli interessi dei titoli di Stato, dall’assoggettamento ad Irap delle Pubbliche Amministrazioni all’applicabilità dell’Iva su prestazioni rese da enti pubblici, e così via, la posizione in questione sembra un residuato dell’assolutismo, in cui lo Stato era un monoblocco e non un ente articolato che svolge funzioni diversificate corrispondenti alla divisione dei poteri.
Lo Stato che rende giustizia, e svolge una funzione giurisdizionale i cui costi devono essere coperti almeno pro quota dalle parti in causa, non è identificabile con la Pubblica Amministrazione che sta in giudizio. Altrimenti dovremmo anche dire che lo Stato giudica se stesso, rinnegare la divisione dei poteri e l’indipendenza della magistratura, nonché le scelte fatte nel XIX secolo sulla giustiziabilità degli atti amministrativi, sulla creazione del giudice amministrativo (Consiglio di Stato e TAR), sulla natura giurisdizionale delle commissioni tributarie, e altro ancora.
E poi, soprattutto, se la funzione del raddoppio del contributo unificato è dissuasiva, onde evitare impugnazioni strumentali, dilatorie e infondate, non si vede perché la stessa non dovrebbe operare - direi, a maggior ragione - nei riguardi della Pubblica Amministrazione, come utile parametro di valutazione dell’operato dei suoi funzionari, e di controllo democratico del modo in cui le risorse dei contribuenti vengono spese.
Per le nostre autorità, invece, la Pubblica Amministrazione può impugnare sentenze sfavorevoli anche in modo palesemente pretestuoso senza subire alcun pregiudizio, mentre i privati, solo perché per avventura soccombenti in appello, dovranno in ogni caso corrispondere questo asimmetrico e “mostruoso” tributo-sanzione.
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