martedì 3 dicembre 2019

Il MES tra deficit democratico e sovranità perduta

Le polemiche sul cd. “fondo salva Stati”, centrate su un presunto deficit di democrazia del meccanismo, di pesante intromissione nella sfera di sovranità dello Stato beneficiario dell’aiuto, di “colpi di stato” e sovvertimento delle regole solidaristiche a vantaggio di ciniche operazioni governate da bieche logiche di mercato (come quelle di Paolo Becchi e di Lidia Undiemi), sembrano non tener conto dell’attuale assetto dei rapporti tra gli Stati dell’Unione Europea, di cui il fondo salva Stati (meccanismo europeo di stabilità) è soltanto un riflesso.
Il punto è che l’Unione Europea non è uno Stato federale, e forse nemmeno una confederazione tra Stati: l’Unione Europea, indipendentemente da come la si voglia inquadrare, al di là di dazi doganali, prelievi agricoli e una piccola percentuale dell’Iva, non dispone di tributi propri, e i suoi trattati istitutivi non contemplano trasferimenti di risorse tra Stati membri per perequare la diversa capacità fiscale dei cittadini dell’Unione.
E’ noto del resto che la politica fiscale resta appannaggio dei singoli Stati membri sovrani, al di là dell’armonizzazione in materia di imposte sul consumo, e il gettito fiscale di ogni Stato è vincolato ad una spesa pubblica che ha contorni nazionali. Non esistono insomma contribuenti “europei”, ma contribuenti tedeschi, francesi, italiani, greci, e così via.
In questo scenario, si spiega che l’attivazione di un meccanismo per la stabilità finanziaria dell’eurozona sia stato disciplinato non già da un regolamento o  una direttiva comunitaria, cioè da regole capaci di vincolare i singoli cittadini dell’Unione, bensì da un apposito trattato multilaterale, cui hanno aderito gli Stati membri che dell’eurozona fanno parte. A questo livello, ogni Stato, nei rapporti con tutti gli altri Stati, non opera nella sua veste di ente dotato di sovranità (attributo che concerne il rapporto con i cittadini), comportandosi piuttosto alla stregua un soggetto privato tra altri suoi “pari”. Nel diritto internazionale opera come noto il principio “superiorem non recognoscens”, dunque non sorprende che il cd. meccanismo europeo di stabilità sia basato su un trattato che presenta forti similitudini con istituti privatistici, a conferma peraltro dell’osmosi sussistente in generale tra un ramo e l’altro del diritto, ed in ultima analisi del carattere unitario del diritto stesso, al di là dei settori in cui lo stesso è tradizionalmente compartimentato per fini didattici o accademici.
Le clausole del trattato sul MES appaiono in effetti ispirate ad una duplice matrice, ovvero da un lato ai meccanismi della governance e della “democrazia” (non rappresentativa bensì) societaria, dall’altro a quella della mutua assicurazione. Sotto il profilo strutturale, il MES è dotato di personalità giuridica propria (trattandosi di una istituzione finanziaria internazionale) ed ha uno “statuto” che presenta significative assonanze con quello delle società per azioni. E così per la governance e le regole di voto, da assumersi dal consiglio dei governatori (l’equivalente dell’assemblea dei soci) composto dai rappresentanti degli Stati aderenti (i “soci”), sulla base della regola della maggioranza, per la formazione della quale non opera il principio del voto capitario, bensì quello della proporzionalità alle quote di capitale versato (art. 4); per la nomina di un consiglio di amministrazione (art. 6); per la presenza di un fondo di dotazione, cioè di un capitale autorizzato (deliberato) e di un capitale versato (art. 8); per una disciplina del mancato pagamento delle quote (art. 4 co. 8) – sospensione del diritto di voto - uguale a quella prevista per i soci morosi delle società per azioni; per la possibilità di distribuire dividendi e profitti degli investimenti ai membri del MES allorché capitale e fondo di riserva risultino eccedenti rispetto agli scopi “statutari” (art. 23); per le regole su riserve, coperture di perdite, conti annuali, e così via.
Sul piano degli scopi, il trattato risponde invece alle esigenze delle mutue assicuratrici: anche se, come visto, non è affatto escluso il conseguimento di profitti e la distribuzione degli stessi ai partecipanti, la finalità ultima del MES non è certo lucrativa, quanto mutualistica. Ogni Stato dell’eurozona, partecipando all’organismo in questione, stipula una sorta di assicurazione, versando un contributo nella prospettiva di trovarsi forse un giorno nella condizione di beneficiare, in via diretta, dell’assistenza finanziaria del MES, o comunque di trarre indiretto vantaggio dalla stabilizzazione dell’intera zona euro.
Le similitudini con gli istituti privatistici, con il diritto societario e le mutue assicuratrici, si fermano però al livello dei rapporti tra gli Stati, non potendo ovviamente coinvolgere il rapporto verticale, tra ciascuno Stato e i propri cittadini. E questo spiega perché il MES non è (e non avrebbe potuto essere concepito come) un ente filantropico o di beneficienza, di assistenza disinteressata, come una azienda di erogazione: gli interventi di assistenza finanziaria sono infatti soggetti a una rigorosa “condizionalità”, i prestiti del MES fruiscono dello status di creditore privilegiato, l’assistenza finanziaria è subordinata a un programma di aggiustamento macroeconomico (che il membro MES che ha richiesto l’aiuto dovrà  negoziare con la Commissione Europea), e a una valutazione di sostenibilità del debito pubblico.
In effetti, se un privato può al limite decidere di concedere prestiti a soggetti privi di merito creditizio, accettando senza problemi il rischio della mancata restituzione, o addirittura compiendo atti di rimessione del debito o rinuncia al credito (trattandosi di diritti patrimoniali, come tali disponibili), non altrettanto possono fare gli Stati e gli enti pubblici in genere. Uno Stato non può erogare fondi ad altri Stati “a fondo perduto”, senza valutare la concreta possibilità di restituzione, ed è per questo che appare oggi imbarazzante dover prendere atto della (altamente probabile) inesigibilità dei crediti erogati in passato alla Grecia, e che si sono poste condizioni molto stringenti cui subordinare il nuovo programma di aiuti. Col rischio peraltro che, nonostante tutto, si finisca per aggravare la situazione, erogando  ulteriore credito ad un debitore già insolvente.
Per ragioni analoghe a quelle sottostanti alla cosiddetta “indisponibilità del crediti tributari” – per cui l’ente pubblico impositore non può tendenzialmente rinunciare a riscuotere i tributi dovuti, concedendo sconti o  abbattimenti, dovendo rendere conto alla restante platea dei contribuenti che da ciò riceverebbe un pregiudizio - così gli Stati che, attraverso il MES, accordino aiuti finanziari nella logica mutuamente assicurativa di cui sopra, lo devono fare soltanto previa verifica positiva della “sostenibilità del debito pubblico” del membro in difficoltà: in caso contrario, l’aiuto finanziario perderebbe le sue caratteristiche creditizie, trasformandosi in un mero trasferimento o sussidio a fondo perduto.
Ma una logica puramente solidaristica di questo tipo, che pure alcuni ritengono auspicabile, non rientra nel novero delle forme di solidarietà contemplate dal diritto dell’Unione Europea, limitate ai casi dei richiedenti asilo, oppure a quello oggi previsto dall’art. 222 del Trattato di Lisbona, che prevede una clausola di solidarietà qualora uno Stato membro sia vittima di attacco terroristico o di calamità naturale. Non è invece affatto contemplata una solidarietà finanziaria nel senso in cui di solito intendiamo il termine, con riguardo ai trasferimenti monetari di risorse tra territori con diversa capacità fiscale, in modo da consentire a tutte le popolazioni analoghi livelli dei servizi, almeno di quelli essenziali .
Nel quadro dei rapporti tra Stati dell’UE o dell’eurozona, ciascuno Stato può contare sulle entrate fiscali attingibili nell’esercizio della propria sovranità nei confronti dei contribuenti assoggettati alla sua giurisdizione, ma non può certo contare né pretendere che altre collettività e gruppi sociali, prive di legami col suo territorio, contribuiscano e si facciano carico delle sue spese pubbliche e men che meno dei suoi deficit di bilancio.
Ed è questa la ragione, in definitiva, per cui ogni aiuto finanziario tra Stati (ancorché tutti appartenenti all’eurozona) non può mai diventare esplicitamente un trasferimento a fondo perduto, poiché verrebbero sovvertite regole consolidate da secoli, radicate nelle tradizioni costituzionali: e cioè il legame territoriale tra entrate fiscali e spesa pubblica. Una surrettizia trasformazione degli aiuti finanziari in trasferimenti già ex ante senza prospettiva di restituzione spezzerebbe il legame tra il dovere fiscale e il concorso alle spese pubbliche, giacché i contribuenti di una nazione si troverebbero a contribuire alle spese di altre collettività, come avevo evidenziato in un precedente post).
E’ questo il rischio oggi implicito nei nuovo piano di aiuti finanziari alla Grecia: e se vogliamo esprimerlo in termini di perdita di sovranità, la dovremmo allora riferire non allo Stato destinatario dell’aiuto, bensì a quelli erogatori, “costretti” a destinare le proprie entrate fiscali alla soddisfazione di bisogni di altre collettività. Quanto al deficit di democrazia del meccanismo di aiuti, se ne dovrebbero semmai lamentare i cittadini degli Stati creditori, chiamati a pagare tributi per far fronte a spese in deficit non deliberate dai propri rappresentanti e di cui essi non hanno beneficiato. 
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venerdì 4 ottobre 2019

Tagli selettivi alle detrazioni Irpef, a volte ritornano

Tra le misure allo studio per la manovra di bilancio 2020 vi sarebbe un taglio selettivo, a valere solo sui redditi più elevati, delle detrazioni e deduzioni fiscali, che verrebbero progressivamente ridotte (phase out) a partire da 100 mila euro, fino ad azzerarsi per i redditi superiori a 300 mila euro. Una misura del genere era già stata prospettata nel 2015, da parte degli allora commissari alla spending review, che avevano preso di mira le tax expenditure, sempre immaginando un meccanismo di sfoltimento selettivo, concentrato sui redditi più elevati. Ripropongo di seguito, con qualche piccola variante, una riflessione che avevo fatto all’epoca, la cui validità argomentativa mi sembra intatta. Del resto, nel "giorno della marmotta” della politica fiscale italiana, siamo condannati a rivivere sempre le stesse magnifiche esperienze.
Tagliando le detrazioni e le deduzioni nel modo descritto, si realizzerà un surrettizio inasprimento della curva di progressività delle aliquote sugli scaglioni di reddito più elevati, con una non irrilevante perdita dei tratti di personalità dell’imposta (già seriamente compromessi, tra l’altro, dal continuo proliferare di regimi sostitutivi, tipici delle imposte “reali”). L'Irpef è infatti un'imposta personale non solo perché tassa i redditi progressivamente (non tutti, a dire il vero), ma anche e forse soprattutto perché riconosce la situazione personale e familiare del contribuente nel modulare il debito tributario, ad esempio riconoscendo che un soggetto che sostiene spese mediche o di assistenza, magari ingenti, non ha - a parità di reddito posseduto - la stessa capacità di contribuire di un soggetto in buona salute e che può dedicare interamente il suo reddito ai consumi o al risparmio.
Ora, il taglio selettivo delle detrazioni o deduzioni, soltanto a carico dei redditi più elevati, mantiene la personalità dell'imposta solo dove fa comodo agli interessi erariali (e indirettamente alla platea dei contribuenti non toccati dal taglio), cioè in punto progressività, eliminandola invece nella parte in cui si tratterebbe di riconoscere il carattere "sociale" delle spese sostenute dal singolo, evitando di tassare redditi solo apparenti, in quanto erosi da spese di cui il contribuente farebbe magari a meno, come le spese mediche, sanitarie, per l’acquisto di farmaci, contributi previdenziali per badanti, etc. (secondo il principio di tassazione del “clear income”). A pagare il taglio delle tax expenditure saranno dunque non soltanto "i soliti noti", cioè quei pochi lavoratori dipendenti o autonomi che dichiarano redditi elevati, ma tra questi quelli in possesso di redditi falcidiati da spese a volte necessarie per l'esistenza, che solo per loro risulteranno irrilevanti nel calcolo del debito d'imposta.
L'Irpef, se passerà questo disegno, rischia così di diventare un tributo progressivo non solo “speciale”, cioè confinato ad alcune categorie di contribuenti, ma ancor più selettivo e discriminatorio (un tributo "votato dalla maggioranza a carico della minoranza", come temeva von Hayek).

venerdì 13 settembre 2019

Evasione, lotta al contante e (dis)incentivi perversi

Vista l’attenzione che i media stanno dedicando alla proposta di Confindustria di “tassare” il contante (i prelievi al bancomat sopra una certa soglia mensile), non è forse inutile tornare sul tema con qualche riflessione più strutturata, partendo dai dichiarati obiettivi dei proponenti: scoraggiare l’evasione nel settore distributivo e determinare l’emersione di attività non tassate. 

La proposta, che ha suscitato reazioni soprattutto sul versante del disincentivo all’uso del contante mediante introduzione di una “commissione” (sic) in percentuale dei prelievi da ATM o sportello, prevede tuttavia anche un incentivo all’uso della moneta elettronica sotto forma di un credito d’imposta del 2 per cento al cliente che effettua i pagamenti in tale forma. 
La combinazione di incentivi e disincentivi va dunque traguardata per la sua effettiva possibilità di raggiungere l’obiettivo (contrastare l’evasione da occultamento dei corrispettivi), e per il suo impatto sul sistema degli adempimenti amministrativi e fiscali. Al riguardo, lasciando a latere inconcludenti e qui irrilevanti discussioni sulle “esternalità negative” prodotte dall’uso di denaro contante, sembra possibile osservare quanto segue:

1) Quanto all’incentivo, si parla nella proposta di “credito di imposta” ma subito dopo di “detrazione”; non si tratta tuttavia di concetti equivalenti, posto che il credito è rimborsabile e dunque può essere fruito anche dagli incapienti, a differenza della detrazione. In ogni caso, il credito/detrazione verrebbe utilizzato “al momento della dichiarazione dei redditi”, sulla base del certificato prodotto dagli istituti di credito recante l’ammontare dei pagamenti elettronici effettuati nell’anno solare. Ciò determinerebbe, atteso che tutti consumano e dunque l’incentivo riguarderebbe l’intera popolazione, un verosimile significativo incremento del numero delle dichiarazioni dei redditi. Molti dei circa 11 milioni di contribuenti (lavoratori dipendenti e pensionati) che oggi non presentano la dichiarazione per mancanza di debiti d’imposta, dovrebbero iniziare a presentarla per far valere la nuova tax expenditure, ovvero per scomputare la detrazione dalle imposte dovute a saldo in dichiarazione e/o ottenere il rimborso del credito di imposta (se invece il 2 per cento funzionasse come vera “detrazione” non rimborsabile, con esclusione degli incapienti, non vi sarebbero dichiarazioni aggiuntive ma una larghissima fascia della popolazione resterebbe estranea al sistema con depotenziamento dell’incentivo).
Il sistema verrebbe dunque significativamente appesantivo, con tutti i connessi costi amministrativi e di transazione sia per il settore pubblico (l’Agenzia dovrebbe “lavorare” alcuni milioni di dichiarazioni aggiuntive, ed erogare moltissimi micro-rimborsi) che per il settore privato. Probabilmente molti contribuenti, con reddito e capacità di consumo medio-bassa, che oggi non presentano la dichiarazione, vedrebbero fortemente ridotto o annullato il beneficio dell’incentivo fiscale, sopravanzato dai costi connessi alla predisposizione e presentazione della dichiarazione dei redditi. Ne deriva che, per molti consumatori, l’incentivo non produrrebbe gli effetti sperati, di spostamento delle abitudini di pagamento.

2) Il significativo esborso iniziale connesso alla nuova tax expenditure (5,7 miliardi di euro), stimato dai proponenti e connesso all’attuale stock di pagamenti elettronici, potrebbe non accompagnarsi, nel modo sperato, a una riduzione dell’evasione. È plausibile ipotizzare, infatti, che molti consumatori utilizzerebbero il sistema di incentivi in modo opportunistico, a proprio esclusivo vantaggio: da un lato, utilizzando mezzi elettronici e tracciati di pagamento anche nei piccoli o medi pagamenti quotidiani in cui oggi vengono sovente impiegati i contanti (dal caffè al bar alla spesa al supermercato, dall’acquisto di abbigliamento al pagamento di bollette), spesso effettuati presso la grande distribuzione, pubbliche utilities ed esercizi commerciali che certificano regolarmente le vendite emettendo scontrini e ricevute, proprio al fine di beneficiare del “credito di imposta” e quindi di fatto ottenere uno sconto del 2 per cento sui consumi effettuati. Ma dall’altro, tenendo a disposizione il contante per pagare le transazioni “non ufficiali”, nei confronti di commercianti, artigiani, imprenditori e professionisti non organizzati: il credito di imposta del 2 per cento non sarebbe infatti quasi mai in grado di far venir meno, per il consumatore, la convenienza ad accettare transazioni commerciali in nero, se solo si riflette sul livello attuale delle aliquote Iva (10 o 22 per cento), forse con la sola eccezione delle prestazioni esenti (come quelle mediche e sanitarie). L’incentivo fiscale (il credito d’imposta del 2 per cento), dunque, avrebbe sì l’effetto di aumentare il numero di transazioni elettroniche, ma queste sarebbero in grandissima misura relative ad acquisti che già oggi avvengono nell’ambito di transazioni commerciali regolari.

3) La considerazione di cui al punto precedente si collega altresì all’altro versante della proposta, ovvero la “commissione” (imposta?) sui prelievi di contante al bancomat o allo sportello: spostandosi, per pure ragioni di convenienza fiscale dal lato-consumatore, le abitudini di pagamento dei consumi dal “contante” alla “carta elettronica”, diminuirebbe la necessità di passare al bancomat per  rifornirsi dell’argent de poche, e dunque il plafond a disposizione per prelievi entro la soglia mensile di 1.500 euro aumenterebbe corrispondentemente, lasciando ampio spazio per continuare a usare il contante per pagare in nero artigiani, commercianti e professionisti.

4) Sotto un diverso profilo, la fruizione del credito di imposta in dichiarazione dei redditi rischia di risolversi in un trattamento discriminatorio a carico dei soggetti non residenti (turisti, persone che non soggiornano abitualmente nel nostro paese, etc.), che non potrebbero fruire del credito non possedendo un codice fiscale e non presentando la dichiarazione in Italia. Sotto questo aspetto, e proprio ponendosi dal punto di vista degli obiettivi della misura proposta da Confidustria, la situazione del non residente che effettua acquisti in Italia mi sembra perfettamente assimilabile a quella del consumatore residente. Anche nei confronti del non-residente che effettua consumi in Italia, infatti, valgono le stesse esigenze – nella prospettiva antievasiva della misura - di incentivare il pagamento con mezzi elettronici, a scapito dei pagamenti in contanti. L’esclusione dei consumatori non residenti che effettuano acquisti presso esercizi commerciali italiani dal novero dei soggetti in grado di fruire del credito di imposta potrebbe dunque non superare una censura davanti alla Corte di Giustizia, per quella che sembra a prima vista costituire una ingiustificata discriminazione.

5) Quanto al lato del disincentivo, vi è una importante questione preliminare di inquadramento giuridico legata all’incerta qualificazione della misura, denominata come “commissione”. Si tratta tuttavia di una qualificazione impropria, posto che tale “commissione” verrebbe prelevata dalle banche ma girata allo Stato, che utilizzerebbe il gettito per far fronte alla nuova tax expenditure di cui si è detto ai punti precedenti. Si tratterebbe dunque di una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge (art. 23 Cost.), che in quanto finalizzata a reperire mezzi finanziari all’ente pubblico (lo Stato userebbe le risorse in esame per finanziare il programma di incentivi fiscali di cui si è detto sopra) parrebbe rivestire natura tributaria, anche perché ipotetiche alternative – come quella sanzionatoria – possono essere escluse, dato che il ritiro di denaro contante dai conti correnti, per utilizzarlo al fine di pagamenti o come riserva di valore, non è certo una attività illecita (ci mancherebbe altro, essendo il contante il legal tender). Ma a quel punto quella che Confidustria qualifica come “commissione”, avendo in realtà natura tributaria, di vera e propria “imposta”, dovrebbe rispettare l’art. 53 Cost., cioè riferirsi a una specifica capacità contributiva dell’obbligato (il correntista che effettua prelievi sopra soglia). Sotto questo profilo però, si finirebbe per tassare un fatto “neutro” sul piano delle manifestazioni di ricchezza usualmente assoggettate al tributo. Si tassano infatti le transazioni e gli scambi commerciali, nella loro duplice valenza reddituale (per il produttore o il distributore) e di consumo (per l’acquirente finale), ma non i mezzi di pagamento utilizzati come corrispettivo di quelle transazioni. Considerandola d’altra parte un’imposta patrimoniale, occorrerebbe vedere in che limiti possa sostenersi che un soggetto che effettua prelievi di contante da un ATM svela una maggiore capacità contributiva rispetto a chi tiene i propri soldi in banca senza prelevare, oppure li tiene direttamente presso di sé senza mai prima depositarli presso qualche istituto di credito. 

5) Ancora, la gestione della soglia di prelievi superiori a 1.500 euro mensili, oltre la quale scatterebbe il pagamento della “commissione”, sarebbe facilmente aggirabile distribuendo la liquidità su più conti, ed a tal proposito la contromisura di riferire la soglia al soggetto che preleva, e non al conto dal quale si preleva, non pare coercibile poiché i singoli istituti di credito non possono sapere quanti e quali conti il loro cliente possieda in altri istituti e come questi vengano movimentati.

Non mi sembra proprio, in definitiva, che il pacchetto di incentivi e disincentivi ideato da Confidustria possa efficacemente raggiungere l’obiettivo che si prefigge, ovvero scoraggiare l’evasione. Potrebbe certo contribuire ad aumentare il numero delle transazioni elettroniche, ma al prezzo di: 

(i) intasare il sistema amministrativo inondandolo di milioni di dichiarazioni dei redditi aggiuntivi, sottraendo inutilmente energie all’Amministrazione finanziaria, 

(ii) far aumentare i costi complessivi di transazione connessi alla compliance fiscale, 

(iii) rischiare una censura davanti agli organi comunitari, 

(iv) produrre una significativa perdita di gettito dovuta alla nuova tax expenditure di tipo massivo, che coinvolgerebbe non meno di 40 milioni di contribuenti-consumatori, data la facilità con cui il pagamento della “commissione” - finalizzato al finanziamento della tax expenditure - potrebbe essere aggirato.

giovedì 12 settembre 2019

Una tassa sui prelievi al bancomat, come se fosse antani

Circolano da qualche giorno proposte di tassazione dei prelievi di contante al bancomat oltre una certa soglia mensile, come arma finale contro l’evasione (si veda quella apparsa in un’intervista al Corriere e quella avanzata da Confindustria). 
A parte il senso di déjà vu (una genialata del genere venne avanzata qualche anno fa da Milena Gabanelli), si resta attoniti dalla totale mancanza di consapevolezza delle problematiche giuridiche e tecniche che una iniziativa del genere implicherebbe. 
Non si comprende nemmeno a quale titolo la somma verrebbe prelevata dallo Stato, per il tramite delle banche, visto che di volta in volta vengono evocate (mi riferisco alla proposta di Confindustria) le figure della commissione (come se si trattasse di un onere bancario), dell’imposta (ma quale sarebbe l’indice di capacità contributiva?), della sanzione (a fronte di quale violazione?). 
A fronte di idee così confuse, che hanno zero possibilità di essere attuate, sarebbe uno spreco di tempo addentrarsi in un analitico debunking. Mi limito alle seguenti osservazioni: se la “somma” (commissione? Imposta? Sanzione?) operante da disincentivo al prelievo deve essere prelevata dall’istituto bancario presso il quale è acceso il conto corrente, al superamento della soglia (1.500 euro al mese?), sarebbe ovviamente sufficiente spalmare la propria liquidità su più conti ed evitare così il balzello. 
Ma ai brillanti proponenti una cosa del genere certo non poteva sfuggire, ed ecco emergere la contromisura: il superamento della soglia dovrà essere verificato non più in relazione al singolo conto, bensì su base soggettiva, considerando il totale dei prelievi effettuati dal cliente/contribuente/trasgressore.
Ma chi farà allora da “sostituto d’imposta”? Come potrà ciascuna banca conoscere i prelievi effettuati mensilmente dal proprio cliente presso altri istituti di credito? E quid iuris per i conti tenuti presso banche estere, cui certo non si può chiedere di fare da sostituti d’imposta? La commissione/imposta/sanzione sarà in tal caso liquidata in autodichiarazione? Sento già i polli che ridono. 

martedì 9 aprile 2019

Progressività, flat tax e scelta dell’unità impositiva (individuo o famiglia)

Le imposte ad aliquote progressive, come l’Irpef, pongono una serie di problemi di non facile soluzione con riguardo alla scelta dell’unità impositiva. Se infatti il soggetto passivo del tributo è individuato – come oggi accade – nella singola “persona fisica” cui vengono imputati i redditi posseduti, si creano nell’ambito dei nuclei familiari situazioni potenzialmente molto distorsive. A parità di reddito complessivo familiare, vengono infatti penalizzate le famiglie monoreddito, rispetto alla situazione di coppie sposate in cui entrambi i coniugi lavorano: a parità di reddito familiare, le famiglie in cui entrambi i coniugi lavorano godono infatti di una minor tassazione, dovuta alle minori aliquote progressive applicabili su ciascun reddito.  
Per sopperire a questo stato di cose, alcuni ordinamenti prevedono uno splitting legale dei redditi e l’applicazione, sulle singole quote risultanti, dell’aliquota corrispondente ai diversi redditi così “normalizzati”. Altri ordinamenti (come quello francese) prevedono invece l’istituto del “quoziente familiare”, che comporta uno splitting corretto con dei coefficienti, per ottenere una scala di equivalenza e adattare la capacità contributiva alla situazione socio-demografica della famiglia. In questi Paesi nel concetto di “famiglia” in senso fiscale rientra non solo la famiglia “legale” ma anche la coppia di fatto.
Entrambi questi sistemi (splitting o quoziente familiare), tuttavia, generano un disincentivo al lavoro nei confronti del secondo coniuge (di solito, la moglie), posto che il reddito guadagnato da quest’ultimo finisce per scontare (con lo splitting o il quoziente) un’aliquota più elevata di quella che sarebbe applicabile stand alone.
Il nostro ordinamento odierno, al contrario, non prevede alcun istituto riconducibile all’idea dello splitting o del quoziente familiare, e la “dimensione” impositiva della famiglia entra in gioco soltanto sotto profili limitati, ad esempio attraverso l’attribuzione di detrazioni per carichi di famiglia (attraverso il concetto del “familiare a carico”).
Agli albori dell’Irpef vi fu una considerazione unitaria della famiglia, attraverso il cosiddetto “cumulo” dei redditi: il reddito della moglie era attribuito al marito, sulla base della presunzione secondo cui quest’ultimo ne avrebbe avuto la disponibilità. Si generava così una distorsione, posto che il cumulo faceva scattare più elevate aliquote progressive, e una disparità di trattamento tra coppie sposate e coppie non sposate (a svantaggio delle prime), con evidente contraddittorietà rispetto alla soggettività passiva attribuita ai singoli individui e alla scelta di tassare in capo a un determinato soggetto (il marito) redditi di cui era titolare un diverso soggetto (la moglie). Il cumulo dei redditi, che creava un disincentivo al matrimonio e quindi paradossalmente penalizzava la famiglia, venne come noto a cadere a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della Corte (Corte Costituzionale, n. 179/1976). 
Scomparso da decenni il distorsivo cumulo dei redditi, l’attuale Irpef ad aliquote progressive, incentrata sugli individui (l’unità impositiva – cioè il soggetto passivo del tributo – è la singola persona, non la famiglia), incentiva oggettivamente fenomeni erosivi di splitting (anche con intestazioni “di comodo” di cespiti produttivi di reddito), che tuttavia potrebbero a loro volta essere visti come una “legittima difesa” rispetto alle distorsioni connesse al mancato riconoscimento del “quoziente” o dello splitting legale. E nei confronti di questi fenomeni (“erosivi” o “difensivi”, a seconda dei punti di vista), il legislatore reagisce con norme in senso lato antielusivo che rischiano a loro volta di eccedere rispetto agli obiettivi perseguiti, complicando il sistema (si pensi ad esempio al regime dell’impresa familiare e ai limiti dirigistici cui soggiace l’attribuzione di quote del reddito di impresa ai familiari dell’imprenditore, oppure alla indeducibilità dei compensi pagati dall’imprenditore per il lavoro prestato dal coniuge o dai figli)[1].
È invece evidente che con la flat tax, cioè un’imposta ad aliquota unica, le problematiche qui accennate vengono tendenzialmente meno: se l’aliquota formale è invariante rispetto all’entità del reddito posseduto, non fa alcuna differenza optare per la tassazione su base individuale, per il cumulo dei redditi o per lo splitting legale. La flat tax presenta dunque caratteristiche di maggiore “neutralità”: non penalizza, a parità di reddito familiare, le famiglie monoreddito rispetto alle altre (come accade nell’attuale sistema), non favorisce le famiglie con redditi elevati in cui entrambi i coniugi lavorano ma in cui vi sono forti differenziali retributivi (come accade con lo splitting), non crea disincentivi al lavoro per il secondo coniuge a basso reddito (come accade con lo splitting e il quoziente).
La scelta dell’unità impositiva (famiglia o singolo individuo) è dunque neutra, posto che tutti i redditi, indipendentemente da entità e possessore, sono comunque tassati con l’unica aliquota legale prevista. La dimensione e le caratteristiche della famiglia possono invece entrare in gioco nella modulazione dell’esenzione alla base, graduando cioè il minimo vitale esente da imposta in funzione delle necessità del nucleo, della sua numerosità, dell’eventuale presenza di soggetti “deboli” (minori di una certa età, soggetti anziani con disabilità, etc.), e di altre condizioni socio-demografiche, riproducendo nel particolare contesto le scale di equivalenza tipiche dei sistemi incentrati sul “quoziente familiare”. 
Una differenziazione della fascia esente in funzione delle esigenze e caratteristiche della famiglia sarebbe rispettosa dei principi costituzionali (per l’art. 29 della Costituzione, la Repubblica deve riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio), realizzando in fondo, sia pure attraverso una modulazione dell’importo della fascia esente, quanto già oggi accade in parte con le detrazioni/deduzioni per carichi di famiglia. E questa deduzione andrebbe agganciata al reddito complessivo del nucleo familiare, elevando la “famiglia” a soggetto passivo formale del tributo (salvi meccanismi di solidarietà tra i membri della famiglia nel pagamento del medesimo)[2].
In alternativa, potrebbe essere tenuta ferma la soggettività passiva dei singoli individui, ancorché avvinti da vincoli familiari. Ciascun membro della famiglia dovrebbe dichiarare il proprio reddito complessivo, e avrebbe diritto a una deduzione pari a una quota di quella spettante al nucleo, ottenuta dividendo la deduzione calcolata su base familiare per il numero dei componenti della famiglia percettori di redditi[3].
Previsioni del genere non dovrebbero come detto porre dei problemi di costituzionalità nemmeno considerando la “famiglia” come il soggetto passivo dell’imposta, in cui far confluire (con un “cumulo”) tutti i redditi posseduti dai vari membri della famiglia stessa. L’ammontare dell’imposta dovuta non verrebbe infatti a dipendere dall’essere la famiglia monoreddito o meno, dall’essere i diversi redditi posseduti dai suoi membri di diverso ammontare, e così via, stante l’unicità dell’aliquota. Nel caso si decida di considerare la famiglia, e non il singolo individuo, quale soggetto passivo d’imposta, diminuirebbe il numero delle dichiarazioni da presentare e da controllare, fermo restando che andrebbe introdotto un meccanismo di solidarietà nel pagamento dell’imposta anche nell’ipotesi di accertamento tributario. In alternativa, si potrebbe restare alla tradizionale identificazione dei soggetti passivi nelle singole persone fisiche, attribuendo il “surplus” di esenzione connesso alle caratteristiche socio-demografiche della famiglia secondo gli stessi criteri che oggi governano l’attribuzione delle detrazioni per carichi di famiglia, oppure spalmando la “deduzione familiare” sui contribuenti avvinti dal vincolo familiare.
Quanto alla definizione di “famiglia” in senso fiscale, la recente approvazione della legge sulle unioni civili dovrebbe consentire di estendere senza soverchie difficoltà anche ad esse la stessa tutela del “minimo vitale” prevista per le coppie legalmente sposate.


[1]Lo stesso “cumulo dei redditi”, dichiarato incostituzionale, rispondeva tra l’altro alla dichiarata esigenza di evitare intestazioni fittizie e di comodo dei redditi nell’ambito della famiglia per aggirare la progressività del tributo.
[2]La stessa Corte Costituzionale, nella parte finale della sentenza n. 179 del 1976, auspicava che “sulla base delle dichiarazioni dei propri redditi fatte dai coniugi, ed in un sistema ordinato sulla tassazione separata dei rispettivi redditi complessivi, possa essere data ai coniugi la facoltà di optare per un differente sistema di tassazione (espresso in un solo senso o articolato in più modi) che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia e consideri la posizione della donna casalinga e lavoratrice”.
[3]In caso di incapienza in capo a taluni membri della famiglia si potrebbe consentire il godimento della deduzione in capo a un unico soggetto, come già oggi accade per la fruizione delle detrazioni per carichi di famiglia. In ogni caso, in una flat tax accompagnata da un’imposta negativa, il problema dell’incapienza non si porrebbe neppure.