mercoledì 7 giugno 2017

L'imposta negativa sul reddito tra vantaggi reali e criticità presunte

Il bel libro di Stefano Toso, Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, si sofferma tra l’altro sull’imposta negativa sul reddito, quale strumento con cui attuare “trasferimenti” subordinati alla “prova dei mezzi”, da integrare nell’ambito di un’imposta riformata in senso proporzionale (flat tax). 
Si tratta, come ricorda Toso, di uno strumento semplicissimo: “assegnare a tutti coloro il cui reddito è inferiore ad una determinata soglia un’integrazione pari ad una percentuale della differenza tra la soglia e il reddito definito ai fini fiscali. Il principio si applica, per simmetria, anche ai redditi superiori alla soglia, con la conseguenza di trasformare il sussidio in un tributo”.
La flat tax con imposta negativa è dunque uno strumento combinato di prelievo fiscale e di spesa, che risolve in radice il problema dell’incapienza. In buona sostanza, il cosiddetto “minimo vitale”, cioè il livello di esenzione al di sotto del quale l’imposta non si applica (in applicazione, è bene ricordare, del principio di capacità contributiva), diventa al tempo stesso la soglia massima entro la quale ricevere un sussidio dello Stato, ovvero una integrazione del reddito, secondo una delle possibili modalità attuative del cosiddetto “reddito minimo”.
In apparenza, l’imposta negativa riuscirebbe a coniugare il tratto dell“universalismo" (non essendo confinata a specifiche categorie sociali - anziani, disabili, disoccupati etc. - ma estesa all’intera platea dei cittadini-contribuenti) a quello di una “selettività” senza le controindicazioni caratteristiche della spesa sociale: il sussidio verrebbe erogato soltanto ai più poveri, ma senza stigma sociale, complicazioni amministrative, non take-up (mancata fruizione), disincentivi all’offerta di lavoro (atteso che un aumento del reddito non determinerebbe una perdita del sussidio di uguale importo, ma soltanto in misura pari all’aliquota fiscale).
Sennonché, osserva Toso, i vantaggi dell’imposta negativa sarebbero in buona parte solo apparenti, per ragioni che è opportuno esaminare onde verificarne l’effettiva consistenza:


“E’ difficile immaginare una riforma che introduca un unico istituto di tipo tax-benefit in sostituzione di quelli esistenti e che non ammetta il pagamento di integrazioni speciali per tenere conto di situazioni di obiettivo svantaggio (limiti di età, non autosufficienza, costi per l’alloggio, elevati carichi di famiglia). La presenza di tali integrazioni, tuttavia, fa venire meno buona parte dei vantaggi del modello originario in termini di semplificazione amministrativa”

Ora, se la necessità di integrare l’imposta negativa calcolata sulla deduzione-base può essere condivisa, mi pare che nulla vieti di raggiungere questo obiettivo all’interno dell'unico strumento ipotizzato, differenziando ad esempio il minimo vitale (o prevedendo specifiche deduzioni aggiuntive) in funzione di caratteristiche socio-demografiche del contribuente o degli appartenenti al nucleo familiare (presenza di minori, anziani, disabili, etc.), anche al limite concependo una flat-rate tax su base familiare, cioè prevedendo la famiglia (e non il singolo individuo) come soggetto passivo del tributo, operazione favorita e resa neutrale dall’unicità dell’aliquota di tassazione (il cumulo dei redditi familiari non farebbe scattare aliquote progressive, per intenderci). 
All’aumentare della deduzione-base o delle deduzioni aggiuntive aumenterebbe anche l’ammontare del sussidio (sempre pari al prodotto tra l’aliquota d’imposta e la differenza tra il reddito dichiarato e la più elevata soglia esente), senza perciò incappare nelle complicazioni amministrative che caratterizzano i programmi di spesa. La verifica della spettanza del minimo vitale “differenziato” o delle specifiche deduzioni comporterebbe problemi non maggiori di quelli che oggi connotano i controlli automatici delle dichiarazioni dei redditi (verifica della spettanza di deduzioni, detrazioni, crediti di imposta, e così via), effettuati sulla base delle risultanze dell’anagrafe tributaria (art. 36-bis Dpr 600/1973). 


“Una seconda obiezione che può essere mossa all’idea di rimpiazzare la molteplicità dei programmi esistenti con un unico istituto tax-benefit, ancorché integrato e non categoriale, è che quest’ultimo, essendo ‘solo’, risulta politicamente più vulnerabile in periodi di retrenchment della spesa sociale”

Mi sembra che questa obiezione possa portare a conclusioni di segno opposto. L’integrazione del “sussidio universale” (imposta negativa) nell’ambito del tributo sul reddito conferirebbe al primo una grande stabilità, anche se non soprattutto nei periodi di retrenchment della spesa sociale: infatti, una riduzione dei sussidi, per essere attuata, dovrebbe necessariamente far leva sul livello-soglia del minimo vitale (riducendolo), e/o sull’aliquota d’imposta (abbassandola). 
Si tratta tuttavia di elementi strutturali e portanti di un sistema di flat tax integrato, la cui modifica riguarderebbe l’intera platea dei contribuenti e che sarebbe verosimilmente oggetto di un ampio dibattito parlamentare e discussioni in tutto il Paese. 
La riduzione del minimo vitale (minimo esente) comporterebbe non solo la riduzione dei sussidi, ma altresì il pagamento di imposte da parte di soggetti in precedenza esentati, e via via di tutti gli altri contribuenti con redditi maggiori alla soglia esente (ipotizzando che questa operi come una franchigia senza phase out, come a mio avviso dovrebbe funzionare per garantire la progressione del prelievo a tutti i livelli di reddito). 
Una misura del genere non corre perciò il soverchio rischio di essere assunta da una maggioranza (di contribuenti più benestanti) a scapito di una minoranza (i soggetti sussidiati, con redditi inferiori alla soglia esente), posto che anche la maggioranza sopporterebbe le conseguenze di questa scelta. 
Inoltre, il minimo vitale è protetto dall’art. 53 Cost sulla capacità contributiva, dunque una sua riduzione, specie se significativa, rischierebbe di incappare nel sindacato di costituzionalità delle leggi, anche sotto il profilo di un vulnus al principio di progressività, che in un sistema di flat tax è garantita non già da aliquote graduate bensì proprio dalla deduzione alla base (progressività per deduzione). 
L’ipotesi alternativa per depotenziare l’imposta negativa passa per un taglio dell’aliquota del prelievo (che è appunto la stessa di quella utilizzata per calcolare il sussidio), ma in tal caso la riduzione del trasferimento per gli incapienti implicherebbe una riduzione dell’imposta per tutti, che verosimilmente si scontrerebbe con ineludibili vincoli di bilancio. Nè mi sembra che un intervento restrittivo sull’imposta negativa possa ipotizzarsi come misura di contenimento del disavanzo di bilancio, dato che ad essa si accompagnerebbe una riduzione di entrate su tutti i redditi superiori al minimo vitale.


“Il limite fondamentale di una simile riforma è comunque un altro, quello di assoggettare l’intero sistema assistenziale ad un criterio di selettività operante solo dal lato del prelievo fiscale. Se si opta per l’imposta negativa il problema di accertare la condizione economica dei beneficiari della spesa di welfare non è eliminato ma solo rimosso. La verifica dello stato di bisogno viene infatti spostata sul lato fiscale, con l’effetto di caricare l’imposta personale di responsabilità eccessive, in relazione alle difficoltà di accertamento di alcuni tipi di reddito (quelli da lavoro indipendente) e all’esteso ricorso alla tassazione separata nel caso dei redditi da attività finanziarie. L’onere della verifica della condizione economica sarebbe in sostanza una sorta di means-testing a posteriori, che scatterebbe al momento della copertura della spesa”

Il problema di verificare la reale condizione economica dei beneficiari della spesa sociale non può in effetti essere rimosso o evitato nei sistemi di negative income tax, ma non mi sembra che affidarsi per questo compito alle procedure di accertamento fiscale peggiori la situazione rispetto agli attuali controlli sulle spese di welfare. 
L’Amministrazione finanziaria organizzata in modo gerarchico e capillare sull’intero territorio nazionale è la più adatta a effettuare queste verifiche; in secondo luogo, alcuni dei problemi evidenziati da Toso, come la tassazione sostitutiva e alla fonte dei redditi finanziari, potrebbero essere risolti integrando gli attuali meccanismi di tassazione alla fonte in via definitiva con l’obbligo di comunicare all’Amministrazione finanziaria i dati fiscali dei percettori dei redditi erogati, e/o con l’indicazione in dichiarazione degli stessi ai soli fini della verifica della spettanza della personal allowance, con eventuale rimborso dell’imposta assolta alla fonte dal sostituto (secondo una prospettiva che ho meglio indicato in “Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax”, Il Mulino, 2016, pp. 141 ss.). 
Quanto alle difficoltà di accertamento dei redditi da lavoro indipendente, si tratta di un problema oramai cronico, che  tuttavia un’aliquota piatta relativamente mite può in parte contribuire a risolvere, inducendo una maggiore “fedeltà fiscale” (anche se questo è in effetti tutto da dimostrare).


“Delegare interamente la responsabilità della prova dei mezzi all’imposta personale comporta anche la rinuncia ad un aspetto essenziale della selettività: la verifica della condizione patrimoniale. Senza un opportuno controllo della ricchezza (immobiliare e finanziaria) del richiedente, tutti i soggetti poveri di reddito ma ricchi di patrimonio risulterebbero assegnatari del trasferimento pubblico"

L'obiezione sembra cogliere nel segno, considerato che l’imposta negativa sul reddito verrebbe appunto concessa guardando soltanto all’incapienza reddituale rispetto alla soglia esente, non già considerando anche il patrimonio posseduto. 
Tuttavia, se nella dichiarazione annuale si impone di tener conto dei redditi di fonte patrimoniale (immobiliare e finanziaria), indipendentemente dall’assolvimento dell’imposta con ritenute alla fonte a titolo definitivo, si finisce già in qualche modo per tener conto del patrimonio posseduto, o quantomeno di quello fruttifero e produttivo. 
Nulla impedisce poi di immaginare in un futuro assetto normativo una integrazione dei dati della dichiarazione dei redditi con alcune informazioni di carattere patrimoniale, comunque oggi disponibili all’Amministrazione finanziaria (si pensi al censimento delle proprietà immobiliari o all’anagrafe dei conti correnti), ad esempio prescrivendo che il possesso di un patrimonio superiore a una certa soglia impedisce l’accesso al sussidio (imposta negativa), pur sussistendone in astratto le condizioni sotto il profilo strettamente reddituale. 
Una informazione di questo tipo già deve essere fornita per beni e attività finanziarie detenute all’estero (da indicare nel famigerato quadro RW), e potrebbe senza credo grandi sconvolgimenti essere richiesta anche per gli investimenti detenuti in Italia, magari in via facoltativa soltanto da chi - dichiarando redditi inferiori alla soglia esente - affermi il proprio diritto al sussidio. 
Questi soggetti avrebbero cioè l’onere di dichiarare che il patrimonio posseduto (investito in immobili e attività finanziarie) è inferiore a una certa soglia. 
A quel punto l’Amministrazione avrebbe la possibilità di effettuare controlli, anche su basi selettive, irrogando sanzioni che fungerebbero da deterrente nei confronti di false dichiarazioni di incapienza patrimoniale.
Quanto invece ai patrimoni infruttiferi diversi da quelli in precedenza indicati (come mobilio, gioielli, quadri d'autore, etc.), difficilmente tracciabili nella loro esistenza, titolarità e valore, nemmeno altri sistemi di monitoraggio - diversi da quelli connessi ai controlli delle dichiarazioni dei redditi - riusciranno mai a tenerne conto.


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