Da quest’analisi emerge che gli argomenti pro o contro l’introduzione di elevate aliquote sui più “ricchi” tendono a ripetersi in modo piuttosto stereotipato: i sostenitori di una tassazione fortemente progressiva sui redditi elevati la fondano sull’ability to pay e il “sacrificio” provocato dall’imposta (in ipotesi minore per gli individui ad alto reddito), nonché su una esigenza di equità, anche se occorrerebbe spiegare sotto quale profilo è equo tassare pesantamente i “ricchi”, con elevate aliquote progressive, rispetto a tutti gli altri contribuenti, e se con ciò si intende correggere i privilegi garantiti ai primi dall’azione governativa, da imperfetti meccanismi di funzionamento del mercato, o dalla esistenza in natura di differenze tra gli individui, in termini di capacità, talenti, o anche dovute alla pura sorte.
I detrattori di una progressività troppo spinta hanno invece sovente richiamato principi di efficienza dell’imposta (cioè, in breve, il rischio che aliquote elevate inneschino l’effetto sostituzione: se sul reddito marginale vengo tassato con aliquote molto elevate, potrei decidere di non lavorare) e il carattere “meritato” degli elevati guadagni, che il loro titolare ha prodotto ed ha il diritto di godersi. Quest’ultima argomentazione sottende una sorta di controlimite che, da un certo punto in poi, si contrappone all’incidenza del prelievo fiscale, come dimostrano i tentativi di costruire una teoria costituzionale dei limiti massimi all’imposizione fondandola sui diritti di proprietà e di libera iniziativa economica. Si potrebbe dire che se i diritti proprietari si trovano normalmente in una condizione di subordinazione rispetto al potere statuale di imposizione, questo tende a non valere più quando il prelievo assume una natura quasi-confiscatoria.
I detrattori di una progressività troppo spinta hanno invece sovente richiamato principi di efficienza dell’imposta (cioè, in breve, il rischio che aliquote elevate inneschino l’effetto sostituzione: se sul reddito marginale vengo tassato con aliquote molto elevate, potrei decidere di non lavorare) e il carattere “meritato” degli elevati guadagni, che il loro titolare ha prodotto ed ha il diritto di godersi. Quest’ultima argomentazione sottende una sorta di controlimite che, da un certo punto in poi, si contrappone all’incidenza del prelievo fiscale, come dimostrano i tentativi di costruire una teoria costituzionale dei limiti massimi all’imposizione fondandola sui diritti di proprietà e di libera iniziativa economica. Si potrebbe dire che se i diritti proprietari si trovano normalmente in una condizione di subordinazione rispetto al potere statuale di imposizione, questo tende a non valere più quando il prelievo assume una natura quasi-confiscatoria.
Il consenso all’approvazione di un’elevata tassazione dei “ricchi”, secondo gli autori di Taxing the Rich, si sarebbe tuttavia affermato soltanto in ben precise circostanze, cioè quando è stato possibile chiamare in causa la teoria compensatoria dell’imposta. Alla fine del XIX secolo, si trattava di una compensazione endogena ai sistemi tributari, connotati da una elevata incidenza delle imposte indirette, che, gravando in misura maggiore sulle persone meno abbienti, determinavano un effetto regressivo: per controbilanciare tale effetto furono introdotte o rese più incisive le imposte dirette, e quella sul reddito in particolare, facendole gravare sui titolari di redditi più elevati. Basti qui richiamare, a mo’ di esempio, il dibattito che ebbe luogo negli Stati Uniti (su cui vedi il bel libro di Mehrotra), o, mezzo secolo più tardi, le dichiarazioni in seno alla nostra Assemblea costituente: il principio di progressività inserito in Costituzione intendeva bilanciare il carattere regressivo di un sistema a quell’epoca connotato da una elevata incidenza delle imposte indirette.
Ma è stato solo con i due conflitti mondiali del XX secolo che l’argomento “compensatorio” ha raggiunto una sufficiente base di consenso in grado di supportare sul piano sociale e politico un drastico innalzamento delle aliquote marginali sui più ricchi, fino a livelli (in alcuni casi di oltre il 90 per cento) in precedenza inimmaginabili. La mobilitazione di massa delle due guerre mondiali, e gli enormi sacrifici che gli Stati belligeranti richiedevano ai propri cittadini-lavoratori (il servizio militare è del resto un tributo in natura), non poteva tradursi in un vantaggio per i più ricchi, titolari di capital income, che avrebbero oltretutto approfittato di inaspettati e immeritati guadagni dovuti all’economia di guerra. Da qui le excess profits taxes e le war profits taxes (anche nel nostro Paese ci fu una “imposta sui profitti di guerra”, dal carattere confiscatorio), nonché l’efficace immagine della conscription of wealth (una “leva obbligatoria per il capitale”), e il conseguente utilizzo compensatorio dell’imposta progressiva sul reddito e sulle trasmissioni ereditarie.
Si potrebbe a prima vista pensare che tutto questo fu in realtà dovuto alle enormi esigenze di finanziamento degli Stati impegnati nei conflitti bellici, ma ciò - osservano gli autori di Taxing the Rich - non è in effetti in grado di spiegare perché si decise di far ricadere così pesantemente l'onere della tassazione soltanto su una piccola minoranza di soggetti, cioè quelli più abbienti.
Anche se le elevatissime aliquote che quasi tutti gli Stati introdussero durante i conflitti mondiali rimasero per un po’ di tempo in vita anche successivamente in tempo di pace (un po’ perché l’argomento compensatorio poteva ancora essere utilizzato, anche se andava via via sfumando, un po’ perché tali aliquote erano diventate lo status quo), le stesse hanno poi avuto un andamento decrescente, a partire dai primi anni ottanta del XX secolo.
Se si devono dunque trarre delle indicazioni per il futuro da quanto accaduto nel passato, si potrebbe ritenere che non vi siano molte possibilità di rivedere le elevatissime aliquote sugli individui più abbienti che connotarono i contesti bellici del XX secolo, a meno che - ma nessuno ovviamente se lo augura - non si tornino a combattere guerre di massa, con mobilitazione di tutta la popolazione, oppure, in alternativa, non si riaffaccino altri argomenti “compensatori” di elevata persuasività argomentativa, capaci di orientare le opinioni pubbliche e le decisioni politiche.
Non sembra dunque sufficiente far leva sulle “disuguaglianze distributive” (come ritengono ad esempio Stiglitz, Atkinson o Piketty) per giustificare la reintroduzione di aliquote fortemente progressive sui redditi più elevati (nell’ordine, per intenderci, del 70-80 per cento) o sui patrimoni. Occorrerebbe infatti dimostrare che tali disuguaglianze, dal lato dei top incomes, sono sempre il frutto di rendite di posizione, guadagni immeritati e privilegi, e che lo sono per effetto di un’azione dei poteri governativi o di una sistematica distorsione dei meccanismi di mercato, il che mi sembra assai difficile da dimostrare.
Ma è stato solo con i due conflitti mondiali del XX secolo che l’argomento “compensatorio” ha raggiunto una sufficiente base di consenso in grado di supportare sul piano sociale e politico un drastico innalzamento delle aliquote marginali sui più ricchi, fino a livelli (in alcuni casi di oltre il 90 per cento) in precedenza inimmaginabili. La mobilitazione di massa delle due guerre mondiali, e gli enormi sacrifici che gli Stati belligeranti richiedevano ai propri cittadini-lavoratori (il servizio militare è del resto un tributo in natura), non poteva tradursi in un vantaggio per i più ricchi, titolari di capital income, che avrebbero oltretutto approfittato di inaspettati e immeritati guadagni dovuti all’economia di guerra. Da qui le excess profits taxes e le war profits taxes (anche nel nostro Paese ci fu una “imposta sui profitti di guerra”, dal carattere confiscatorio), nonché l’efficace immagine della conscription of wealth (una “leva obbligatoria per il capitale”), e il conseguente utilizzo compensatorio dell’imposta progressiva sul reddito e sulle trasmissioni ereditarie.
Si potrebbe a prima vista pensare che tutto questo fu in realtà dovuto alle enormi esigenze di finanziamento degli Stati impegnati nei conflitti bellici, ma ciò - osservano gli autori di Taxing the Rich - non è in effetti in grado di spiegare perché si decise di far ricadere così pesantemente l'onere della tassazione soltanto su una piccola minoranza di soggetti, cioè quelli più abbienti.
Anche se le elevatissime aliquote che quasi tutti gli Stati introdussero durante i conflitti mondiali rimasero per un po’ di tempo in vita anche successivamente in tempo di pace (un po’ perché l’argomento compensatorio poteva ancora essere utilizzato, anche se andava via via sfumando, un po’ perché tali aliquote erano diventate lo status quo), le stesse hanno poi avuto un andamento decrescente, a partire dai primi anni ottanta del XX secolo.
Se si devono dunque trarre delle indicazioni per il futuro da quanto accaduto nel passato, si potrebbe ritenere che non vi siano molte possibilità di rivedere le elevatissime aliquote sugli individui più abbienti che connotarono i contesti bellici del XX secolo, a meno che - ma nessuno ovviamente se lo augura - non si tornino a combattere guerre di massa, con mobilitazione di tutta la popolazione, oppure, in alternativa, non si riaffaccino altri argomenti “compensatori” di elevata persuasività argomentativa, capaci di orientare le opinioni pubbliche e le decisioni politiche.
Non sembra dunque sufficiente far leva sulle “disuguaglianze distributive” (come ritengono ad esempio Stiglitz, Atkinson o Piketty) per giustificare la reintroduzione di aliquote fortemente progressive sui redditi più elevati (nell’ordine, per intenderci, del 70-80 per cento) o sui patrimoni. Occorrerebbe infatti dimostrare che tali disuguaglianze, dal lato dei top incomes, sono sempre il frutto di rendite di posizione, guadagni immeritati e privilegi, e che lo sono per effetto di un’azione dei poteri governativi o di una sistematica distorsione dei meccanismi di mercato, il che mi sembra assai difficile da dimostrare.
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