Mi sono interrogato in questi giorni del perché un provvedimento di nicchia come quello sul regime forfettario di tassazione degli “impatriati”, che non riguarda i contribuenti residenti e determinerà verosimilmente un vantaggio “netto” per le casse dello Stato e per l’economia italiana nel suo insieme, dato da un gettito fiscale che non sarà mai altrimenti incassato dall’Italia e dai consumi/investimenti effettuati dagli stranieri che emigreranno nel nostro Paese (ognuno dei quali dovrà comprare casa in Italia e qui sostenere le spese di mantenimento per sè e per la propria famiglia), abbia suscitato tante reazioni sdegnate.
Penso che la risposta abbia radici profonde e risieda nelle istanze di equità orizzontale e uguaglianza che l’imposizione tributaria ha sempre sollecitato. Forse, più ancora che la gravezza del carico fiscale che ciascuno di noi deve sopportare, è intollerabile vedere che altri, nelle stesse o in migliori condizioni economiche delle nostre, siano oggetto di “privilegi”, esenzioni e condizioni di vantaggio fiscale.
Non va del resto trascurato che uno degli episodi salienti della Rivoluzione Americana (la distruzione delle casse di tè a Boston nel 1773) non fu tanto determinata dal rifiuto dei coloni americani di pagare tasse agli inglesi senza poter eleggere loro rappresentanti al Parlamento di Londra (no taxation without representation), quanto dalla ribellione nei confronti del privilegio che era stato concesso alla Compagnia delle Indie Orientali (nell’orbita di influenza della Corona inglese), cui era stata accordata un’esenzione dall’obbligo di pagamento di imposte o dazi in Inghilterra, e che in tal modo sbaragliava la concorrenza di mercanti e smugglers delle colonie.
Così come non va trascurato che nei secoli scorsi le lamentale dei contribuenti nei confronti dell’autorità fiscale erano spesso rivolte alla disparità di trattamento dagli stessi subite nei confronti dei trattamenti accordati a loro concittadini dotati di analoghe ricchezze (come dimostrano le petizioni presentate agli agenti reali delle imposte nella Francia pre-rivoluzionaria).
E’ esattamente questo il nervo scoperto toccato dall’odierno provvedimento sugli “impatriati”: di fronte al privilegio accordato a stranieri “ricchi” che si trasferiscono in Italia, per contribuenti e lavoratori italiani tartassati non è di sollievo l’argomento secondo cui da ciò deriverà un maggior gettito per l’erario italiano. Lo stato italiano, insomma, acquisirà forse un maggior gettito, ma rischia con la stessa probabilità di perdere un altro pezzettino di credibilità nei confronti dei propri cittadini.
Sul piano tecnico, poi, la nuova imposta a forfait è veramente mal congegnata: la stessa non è a mio avviso più un’imposta sul reddito (di fonte estera), nemmeno nella forma delle “imposte sostitutive”, posto che il pagamento della cifra fissa (100 mila euro) non ha alcuna relazione con la base imponibile rappresentata dai redditi prodotti all’estero. Più che un’imposta sostitutiva, sembra un ticket per essere esonerati dal pagamento dell’imposta sui redditi esteri. Con quali conseguenze staremo a vedere: per ora, e senza toccare la questione di costituzionalità già sollevata in altra occasione, mi sembra pronosticabile un rischio di disapplicazione dei trattati contro le doppie imposizioni. Dubito che lo Stato della fonte, in cui era residente lo straniero emigrato in Italia, considererà la somma a forfait come un’imposta sul reddito, dunque potrebbe rifiutarsi di concedere i benefici convenzionali. Con la conseguenza che lo straniero che ha trasferito la residenza fiscale in Italia non potrà accedere alle ritenute ridotte o a norme di esenzione previste dalla Convenzione contro le doppie imposizioni, dovendo invece pagare l’imposta nella misura piena stabilita dalle leggi dello Stato della fonte. E senza peraltro poter accreditare, a fronte dei 100 mila euro pagati in Italia, le imposte pagate in quello Stato (cioè senza poter godere del credito per le imposte pagate all’estero).
Quanto al fatto che una normativa di questo genere è già prevista da Paesi come il Regno Unito, ci andrei cauto: il regime dei “residenti non domiciliati” ivi previsto, per quanto mi consta (ma magari ho informazioni errate, attendo volentieri di essere smentito), non prevede affatto una tassazione a forfait o sostitutiva dei redditi esteri, quanto la possibilità di optare per un differimento dell’imposizione fino a quanto tali redditi esteri non saranno “trasferiti”, cioè resi monetariamente disponibili, nel territorio britannico. Non dunque una tassazione sostitutiva o a forfait, quanto una postergazione del momento impositivo, peraltro spiegabile con la consumption side del principio di ability to pay (capacità contributiva), secondo cui i redditi vengono tassati in funzione dei consumi che gli stessi sottendono. Fino a quando la liquidità corrispondente ai redditi prodotti all’estero non giunge nel Paese di nuova residenza (il Regno Unito), non vi può essere consumo su quel territorio, dunque la postergazione assume un senso anche sul piano costituzionale (cosa che invece non si può dire per l’italica scellerata imposta a forfait, con cui lo Stato fiscale italiano rischia di giocarsi la poca credibilità residua rimastagli).
Riflessioni e commenti su tassazione, politiche fiscali ed economia pubblica. A volte anche su altri temi di attualità
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