domenica 7 agosto 2022

Toh, c’è un buco nel gettito sugli extraprofitti: “intollerabile elusione” o riflesso della sospetta incostituzionalità della norma?

La reazione indignata per quella che è stata definita una “intollerabile elusione” perpetrata dalle imprese destinatarie dell’imposta straordinaria sugli extraprofitti, esposte all’odio popolare e addirittura minacciate con un inasprimento delle sanzioni per essersi sottratte agli obblighi di versamento, dovrebbe forse lasciare spazio a un atteggiamento più prudente e meno assertivo.  

A quanto pare i versamenti dell’acconto risultano largamente inferiori al previsto, con un incasso pari appena al 20% di quanto era stato stimato dal Mef: ora, è possibile che i calcoli dei tecnici governativi fossero sovrastimati, anche perchè, in caso contrario, saremmo di fronte a un prelievo di entità abnorme e a una vera e propria stangata posta a carico di un ristretto gruppo di imprese, atteso che i 10,5 miliardi di euro preventivati ammontano a circa un terzo dell’intero gettito Ires!

Si può tuttavia ipotizzare che, al netto di eventuali sovrastime nel calcolo del gettito atteso, le minori entrate registrate siano effettivamente da ascriversi, per una parte più o meno significativa, a una deliberata sottrazione agli obblighi di versamento.

Se così fosse, non credo che questo comportamento possa essere biasimato, anzi appare tendenzialmente il più razionale e cautelativo per le ragioni delle imprese interessate dal prelievo.

In primo luogo, non va dimenticato che, come molti hanno notato (anche in questo blog), la norma che ha introdotto l’imposta sui c.d. “extraprofitti”  realizzati dalle aziende energetiche non è affatto in grado di individuarli nemmeno per larghe approssimazioni, e dunque, per questa ed altre ragioni, presenta numerosi profili di incostituzionalità. In una situazione del genere, è ben possibile che i soggetti colpiti dal prelievo abbiano preferito non versare il tributo (fermo restando che lo stesso potrebbe essere regolarmente “dichiarato” come dovuto a consuntivo, con la dichiarazione Iva da presentare nel 2023), e quindi attendere la cartella di pagamento con l’intento di impugnarla davanti ai giudici tributari e in quella sede sollevare l’eccezione di incostituzionalità del tributo e chiedere nel contempo di  sospenderne la riscossione. Il mancato versamento dell’imposta da parte delle imprese obbligate potrebbe cioè essere il semplice riflesso dell’insensibilità dimostrata dal Governo e dal Parlamento nei confronti delle tante criticità e dei dubbi di costituzionalità della norma, che sono stati del tutto ignorati e semmai aggravati a seguito dell’aumento dell’aliquota del prelievo (dal 10 al 25 per cento) ad opera del D.L. 50/2022.

In secondo luogo, non può essere trascurata l’influenza che può aver esercitato la sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2015, in cui i giudici, dopo aver rilevato l’incostituzionalità dell’addizionale Ires sulle aziende energetiche nota come “Robin Hood Tax”, sancirono inopinatamente, del tutto a sorpresa, la irretroattività degli effetti della sentenza e la sua valenza solo per il futuro, rendendo definitive e non rimborsabili le imposte già versate. Si pose a quel punto la questione di quale fosse la sorte delle imposte non versate in relazione agli anni di imposta anteriori al 2015: anche se l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto di poterle richiedere attraverso atti di accertamento, diverse commissioni tributarie hanno negato tale possibilità, giacché non può essere accertata un’imposta ormai sfornita di base legislativa, per essere stata la norma istitutiva dichiarata incostituzionale (come si legge in qualche sentenza, non si può chiedere ai giudici tributari di “resuscitare un morto”).

In questo scenario, è evidente che per un’impresa il comportamento più prudente e attento ai diritti dei suoi azionisti potrebbe essere proprio quello di non versare l’imposta, confidando in una pronuncia di incostituzionalità della legge istitutiva del prelievo e ponendosi al tempo stesso al riparo dal rischio di una riedizione della sentenza sulla “Robin Tax”, cioè di una pronuncia di incostituzionalità priva di effetti sul piano della rimborsabilità del tributo. Un monstrum giuridico, qual è la sentenza n. 10/2015, non poteva che produrre frutti avvelenati.

Alla luce di ciò la mirata stretta sulle sanzioni che si va profilando, con accorciamento dei tempi per il ravvedimento operoso (versamento tardivo) e la riduzione dell’abbattimento sanzionatorio ottenibile, potrebbe non sortire alcun effetto e prestarsi a sua volta a censure di compatibilità ordinamentale.

Sul piano effettuale, non si vede perché un’impresa che ha scelto come strategia di non versare l’imposta, onde attendere l’atto della riscossione e impugnarlo per sollevare la questione di costituzionalità della norma, dovrebbe poi versare l’imposta in sede di ravvedimento operoso. Avrebbe al più senso farlo laddove il mancato versamento non risponda a una strategia deliberata ma ad altri fattori, come una (temporanea) crisi di liquidità: l’inasprimento sanzionatorio rischierebbe così di colpire dei soggetti posti in difficoltà dal gravoso onere finanziario di un prelievo inaspettato, il che non mi pare un obiettivo commendevole.

Sul piano ordinamentale, un intervento in senso peggiorativo, con carattere selettivo, sui meccanismi del ravvedimento operoso, modificherebbe in peius il quadro sanzionatorio con riferimento a violazioni già commesse, ponendosi così in contrasto sia con il principio di irretroattività delle sanzioni, che trova copertura costituzionale, sia con il principio di uguaglianza e quello di proporzionalità cui le norme sanzionatorie devono conformarsi: perché mai proprio la violazione degli obblighi di versamento connessi all’imposta straordinaria sugli extraprofitti dovrebbe essere sanzionata più pesantemente rispetto ad altre omologhe violazioni, dato che non vi è alcun elemento di particolare disvalore (ad esempio, la presenza di frodi) nei mancati versamenti relativi alla fattispecie in esame?

Gli interventi annunciati da un Governo al crepuscolo sembrano insomma più una reazione indispettita e collerica a un inaspettato “buco” nel gettito che una risposta razionale a un problema che dipende anzitutto dall’aver escogitato una fonte di entrate sorretta da meccanismi approssimativi e irrispettosi delle regole costituzionali sulla tassazione, prima di tutto gli artt. 3 e 53 Cost.. Non basta certo la denominazione di “contributo straordinario” attribuita al prelievo, come pure qualche sottosegretario ha pubblicamente affermato, a mutarne la natura giuridica: è fuori discussione che si tratti di un’imposta, e non è affatto detto la sua “straordinarietà” riuscirà a convincere i giudici costituzionali della sua conformità a Costituzione.


domenica 20 marzo 2022

Ancora un’imposta sugli extraprofitti di dubbia costituzionalità: basterà la sua temporaneità a salvarla?

Le imposte sugli “extraprofitti” pongono diversi problemi, sia di ordine teorico-generale che di carattere più tecnico, legato alla loro progettazione normativa. Quest’ultima influenza a sua volta il grado di compatibilità ordinamentale di tali misure, potendo anche decretarne l’insuccesso e la dichiarazione di incostituzionalità.


Tra le questioni di ordine generale sollevate da misure di finanza straordinaria di questo tipo vi è il loro carattere solitamente selettivo e settoriale: come dimostrano la Robin Hood Tax del 2008 e il "contributo straordinario contro il caro bollette” previsto all’art. 37 della bozza di decreto legge approvato il 17 marzo 2022, questi prelievi riguardano soltanto le imprese operanti nel settore dell’energia, della produzione e commercio di gas, elettricità e prodotti petroliferi, lasciando indenni tutte le altre, che pure hanno o possono aver realizzato extraprofitti in tempi assai recenti (penso ad esempio ai risultati prodotti dalle imprese della GDO e dai supermercati durante il lock-down, che hanno tratto vantaggio dalle modifiche forzate alle abitudini di consumo dovute alla pandemia). 

 

Certo la scelta di quali extraprofitti tassare è entro certi limiti una decisione politica discrezionale, difficilmente sindacabile a meno che non emergano profili di irragionevolezza nella disciplina normativa. Va però comunque dimostrata la maggiore capacità di contribuire delle imprese nei cui confronti il prelievo viene inasprito, argomentando e dimostrando adeguatamente non solo il conseguimento di maggiori profitti rispetto a una misura ritenuta “ordinaria”, ma altresì il carattere immeritato di tali guadagni, che devono essere riconducibili a situazioni eccezionali di carattere esogeno che non riflettono il merito o il rischio imprenditoriale, traducendosi in una sorta di windfall gains (guadagni di congiuntura dovuti a eventi bellici, fenomeni inflattivi, etc.). 

 

Altrimenti, si finirebbe per colpire in modo punitivo il merito imprenditoriale e le attività economiche che hanno avuto il “torto” di sovraperformare il proprio mercato di riferimento. Il punto è che l’imposta sugli utili  societari, avendo aliquota proporzionale, già è in grado di tassare maggiormente le imprese con utili più elevati; se li si vuole tassare ancora di più, al limite con aliquote progressive, con addizionali o in altre forme, occorre fornire una base giustificativa dell’aggravio di tassazione, quando questo viene posto a carico di una sola categoria di imprese. Occorre in altri termini giustificare razionalmente la “discriminazione qualitativa” a carico di una certa categoria di redditi o dei redditi conseguiti da una categoria di soggetti. Come chiarito anche dalla Corte Costituzionale, "non ogni modulazione del sistema impositivo per settori produttivi costituisce violazione del principio di capacità contributiva e del principio di eguaglianza. Tuttavia, ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione” (sentenza n. 10/2015).

 

Un secondo aspetto da considerare nell’introdurre prelievi straordinari sugli extraprofitti è la scelta del parametro temporale di riferimento per misurare il guadagno differenziale oggetto di tassazione. Un criterio potrebbe essere quello di misurare il profitto extra rispetto a quello che veniva in media conseguito prima del verificarsi dell’evento (rialzo dei prezzi della materia prima, scoppio della guerra, etc.) costituente la “causa” del sovraprofitto. Ma in tal caso occorre che il termine temporale di paragone sia effettivamente un periodo “normale”, poiché altrimenti il calcolo verrebbe falsato e l’extra-profitto si rivelerebbe una illusione ottica (come vedremo tra un attimo il “contributo straordinario contro il caro bollette” palesa proprio questa criticità). 

 

Un terzo profilo da evidenziare è che misure di questo tipo hanno quasi per definizione una impronta sostanzialmente (se non sempre anche formalmente) retroattiva, intervengono cioè dopo che si è verificato l’evento che ha prodotto gli extra-profitti. Pur trattandosi indubbiamente di misure fiscali (prelievi collegati a indici economicamente rilevanti, finalizzati a reperire gettito da impiegare nella spesa pubblica), le excess profits taxes mirano anche a ripristinare una sorta di equità e giustizia sociale, togliendo una parte dei guadagni immeritati alle imprese che li hanno conseguiti, e utilizzando il gettito in chiave redistributiva, a favore delle fasce sociali più deboli o di altre imprese colpite in senso sfavorevole dalla congiuntura (anche se l’esperienza passata insegna che tale “redistribuzione” mirata non sempre ha avuto luogo). Il carattere selettivo di queste misure, unito al fatto che intervengono a posteriori, modificando ora per allora il regime fiscale degli utili già conseguiti dalle imprese destinatarie del prelievo, induce a prestare molta attenzione nella loro progettazione giuridica.

 

Un quarto punto che merita di essere segnalato è poi la coerenza che deve sussistere tra gli obiettivi del legislatore (tassare i sovraprofitti rispetto a quelli ordinari, dovuti a ragioni congiunturali) e la progettazione del prelievo, che deve essere coerente rispetto a quegli obiettivi. Nelle parole dei giudici costituzionali, se è legittimo lo scopo di istituire un prelievo differenziato che colpisca gli eventuali “sovra-profitti” congiunturali, anche di origine speculativa, del settore energetico e petrolifero, occorre però "verificare se i mezzi approntati siano idonei e necessari a conseguirlo. Infatti, affinché il sacrificio recato ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva non sia sproporzionato e la differenziazione dell’imposta non degradi in arbitraria discriminazione, la sua struttura deve coerentemente raccordarsi con la relativa ratio giustificatrice. Se, come nel caso in esame, il presupposto economico che il legislatore intende colpire è la eccezionale redditività dell’attività svolta in un settore che presenta caratteristiche privilegiate in un dato momento congiunturale, tale circostanza dovrebbe necessariamente riflettersi sulla struttura dell’imposizione (sentenza n. 10/2015).


* * *

 

Veniamo ora alla nuova imposta sugli extraprofitti del settore oil, gas and energy introdotta l’altro giorno dal Governo. Diversi sono gli elementi di criticità, segnatamente:

 

1) si tratta, a differenza della Robin Hood Tax, non già di una addizionale o maggiorazione dell’aliquota Ires, bensì di un nuovo tributo dal carattere ibrido, sul “valore aggiunto”, istituito con decreto legge. Viene dunque violato l’art. 4 dello Statuto dei diritti del contribuente, secondo cui “non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti”. È appena il caso di ricordare che le norme dello Statuto costituiscono princìpi generali dell'ordinamento tributario derogabili o modificabili solo espressamente e mai da leggi speciali (art. 1), mentre l’art. 37 della bozza di decreto-legge del 17 marzo 2022 introduce una deroga implicita o tacita al divieto di istituire nuovi tributi per decreto-legge, e certo non può essere considerato una “legge generale”;

 

2) il nuovo “contributo straordinario contro il caro bollette” ha una base imponibile prodottasi quasi interamente nel passato (la differenza tra il saldo del valore aggiunto Iva conseguito nel semestre 1° ottobre 2021-31 marzo 2022, rispetto a quello conseguito nel semestre 1° ottobre 2020-31 marzo 2021), dunque si pone sostanzialmente in deroga, anche stavolta tacita e non espressa, con il principio di irretroattività sancito dall’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente (“le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”); si noti peraltro che anche la Commissione Europea, nel suggerire agli Stati membri di prendere in considerazione l’introduzione di misure fiscali di carattere temporaneo sui proventi straordinari delle imprese operanti nei settori dell’energia, raccomanda che tali misure non abbiano carattere retroattivo (Comunicazione della Commissione REPowerEU dell’8 marzo 2022);

 

3) la base imponibile della nuova imposta straordinaria settoriale è costituita dall’incremento del saldo tra le operazioni attive e le operazioni passive, rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, riferito al semestre 1° ottobre 2021-31 marzo 2022, rispetto al saldo conseguito nel semestre 1° ottobre 2020-31 marzo 2021. In entrambi i casi i saldi vanno calcolati al netto dell’Iva, e vengono ricavati dalle comunicazioni dei dati delle liquidazioni periodiche Iva. Si tratta dunque di una imposta che non ha quale base imponibile il reddito o l’utile d’impresa, e nemmeno l’eccedenza dell’utile o reddito conseguito in un periodo rispetto a quello conseguito in un periodo precedente (ovvero l’extraprofitto). Al contrario, si tratta di una imposta su un aggregato lordo, cioè sull’eccedenza di "valore aggiunto” conseguito ai fini Iva in un semestre rispetto a quello conseguito nel corrispondente semestre dell’anno precedente. Anche se il presupposto della nuova imposta presenta alcune assonanze con l’Iva (la base imponibile è proporzionale al “valore aggiunto”, o meglio alla sua eccedenza semestre su semestre; si applicano per l’accertamento, la riscossione e tutti gli aspetti procedimentali del tributo le norme sull’Iva), è verosimilmente scongiurata una violazione dell’art. 401 della Direttiva Iva sul divieto di istituire (altre) imposte sulla cifra d’affari, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia che richiede, a tal fine, elementi che sono invece assenti nella struttura dell’imposta. La stessa non è infatti generale ma settoriale, inoltre non prevede la rivalsa dunque non è programmaticamente destinata ad incidere il consumo finale (anzi questo è una eventualità che la norma intende scongiurare attraverso un monitoraggio dei prezzi di acquisto e di vendita, pur senza prevedere un divieto di traslazione sui consumatori finali come quello che era stato previsto - benché poi rimasto solo sulla carta - dalla norma istitutiva della Robin Hood Tax).

La maggiore criticità afferente la “base imponibile” del contributo straordinario attiene piuttosto alla verifica del profilo di coerenza tra gli obiettivi e scopi del prelievo straordinario (come ha dichiarato il Presidente del Consiglio Mario Draghi, “Tassiamo una parte degli straordinari profitti che i produttori stanno facendo grazie all’aumento dei costi delle materie prime e distribuiamo questo denaro a imprese e famiglie in difficoltà”), e la struttura dell’imposta, che deve essere coerente rispetto alla sua ratio giustificatrice. Sotto questo particolare aspetto mi sembra che la disposizione rischi seriamente di essere censurata - e dichiarata incostituzionale - per violazione degli artt. 3 e 53 Cost. L’incremento nel valore aggiunto è un indicatore troppo grossolano, se da esso si vuole inferire il conseguimento di extraprofitti: lo stesso può infatti dipendere da una molteplicità di fattori, quali un incremento del volume di attività dell’impresa, a parità di margini unitari; può inoltre dipendere dall’effettuazione di operazioni di aggregazione o disaggregazione (fusioni, conferimenti, scissioni) che possono rendere non significativo il confronto intertemporale su cui è incentrato il calcolo della base imponibile; può ancora essere dovuto al fatto che il saldo tra “valori aggiunti” riferiti a periodi diversi è appunto un aggregato lordo, che non tiene conto di costi estranei al novero delle operazioni attive e passive rilevanti per l’Iva, come le spese per il personale dipendente, gli ammortamenti, i deprezzamenti, le svalutazioni, le rettifiche di valore e altro ancora. Tutte queste componenti reddituali influiscono sull’utile d’impresa, ma la base imponibile del contributo straordinario non ne tiene conto in alcun modo, fino al paradosso di applicarsi anche in presenza di perdite d’impresa o di margini di profitto del tutto “normali”. Insomma, anche se si potrebbe sostenere che l’incremento intervenuto nel “valore aggiunto" ai fini Iva può essere un elemento da cui inferire la produzione di profitti non “ordinari”, tale legame inferenziale appare troppo debole e contraddetto in una lunga serie di ipotesi, tanto da rendere la scelta della base imponibile non coerente rispetto agli obiettivi dell’imposta e alla sua ratio giustificatrice. Una misura come quella in esame dovrebbe essere incentrata, come raccomandato dalla Commissione Europea nel documento su citato, su un attento monitoraggio dell’andamento dei prezzi della materia prima; al contrario, il prelievo straordinario concepito dal Governo italiano non discerne in alcun modo gli aumenti dei margini lordi dovuti alla variazione dei prezzi rispetto a quelli dovuti a una variazione dei volumi di vendita e/o dell’acquisizione di nuove quote di mercato (magari dovute a una politica concorrenziale dei prezzi di vendita!), non tenendo in alcun modo conto dell’andamento della domanda globale dei prodotti energetici, che era molto bassa durante le fasi più acute della pandemia e si è innalzata successivamente per effetto della ripresa economica. In questo modo si finiscono per qualificare come sovraprofitti e windfall gains anche incrementi dei margini spiegabili in modo diverso, in specie con l’aumento delle quantità acquistate e vendute;

 

4) quest'ultimo aspetto è poi aggravato dalla scelta dei termini temporali di riferimento. Come anche altri hanno notato, il periodo di profittabilità  preso a riferimento come base di partenza per calcolare l’incremento di valore aggiunto non era affatto un periodo “normale”, poiché influenzato dalle restrizioni e limitazioni connessi alla pandemia. Basti considerare, a tal riguardo, che il prezzo del petrolio a inizio ottobre 2020 era di circa 40 dollari, mentre un anno prima (ottobre 2019) si aggirava sui 60 dollari. Il rischio insito nella scelta del periodo preso a riferimento dal Governo per il calcolo degli extraprofitti presunti, dunque, è di confrontare il semestre che si chiuderà al 31 marzo 2022 con un semestre (quello compreso tra il 1° ottobre 2020 e il 31 marzo 2021) che risentiva della depressione causata dalla pandemia, rendendo ancor più discutibile e irrazionale il meccanismo di individuazione dell’asserito “extra-profitto”. Insomma, il meccanismo prescelto dal Governo per il calcolo dell’extraprofitto viene fondato su un calcolo di tipo differenziale, dove è assunto per definizione come “sovraprofitto” tassabile l’eccedenza di valore aggiunto rispetto a quella conseguita in un periodo precedente, ed è tale scelta che il Governo dovrebbe giustificare - se ci riesce - razionalmente;

 

5) anche la selezione dei soggetti passivi cui applicare il nuovo “contributo straordinario” appare problematica: non vi è infatti alcuna distinzione all’interno delle filiere e delle diverse concrete possibilità di sfruttare l’aumento del costo delle materie prime, e vengono ad esempio messi sullo stesso piano i produttori e i commercianti di prodotti petroliferi; eppure è noto che per gli impianti di distribuzione l’aumento del costo delle materie prime rappresenta appunto soltanto un costo, e non una occasione di lucro: si potrebbe a tal proposito obiettare che, allora, non vi saranno “eccedenze” da tassare, ma in realtà si è visto sopra che il meccanismo di calcolo della base imponibile può produrre effetti imprevedibili e colpire situazioni in cui - pur essendovi un saldo positivo nel confronto tra valori aggiunti riferiti ai periodi in questione - è del tutto assente qualsivoglia sovraprofitto;

 

6) l’art. 37 della bozza di decreto legge prevede che “il contributo non è deducibile ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive”. Tuttavia, per come è stato concepito il contributo straordinario - per cui non è prevista alcuna rivalsa - esso rappresenta un costo di produzione certamente inerente all’attività esercitata, direttamente connesso alll’eccedenza di valore aggiunto prodotta nel periodo di riferimento. L’indeducibilità dunque confligge con il principio di tassazione del reddito di impresa al netto dei costi, e con gli gli artt. 3 e 53 Cost., come recentemente interpretati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 262/2020, riguardante l’indeducibilità dell’IMU dall’IRES. Secondo i giudici costituzionali, dal principio di inerenza "il legislatore non può arbitrariamente prescindere: questo infatti costituisce il presidio della verifica della ragionevolezza delle deroghe rispetto all’individuazione di quel reddito netto complessivo che il legislatore stesso ha assunto a presupposto dell’IRES. Tale principio si riflette anche sui costi fiscali. Va precisato, infatti, che in relazione agli oneri fiscali l’art. 99, comma 1, del TUIR (rubricato «Oneri fiscali e contributivi») sancisce in via generale il principio della deducibilità delle imposte dal reddito, stabilendo che «[l]e imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento». Tale disciplina prevede espressamente dunque solo due esclusioni dalla regola della deducibilità, del tutto ragionevoli e confermative del principio di tassazione al netto: a) una attiene alle imposte per le quali è prevista la rivalsa (il cui peso non è sopportato dall’impresa, onde la logicità della mancata deduzione del relativo onere); b) l’altra riguarda le imposte sui redditi (che, in quanto derivanti dal reddito, non possono logicamente rientrare tra gli antecedenti causali di questo). Quanto alle «altre imposte», il richiamato art. 99 TUIR, come detto, ne stabilisce la deducibilità, affermando un criterio sì derogabile dal legislatore, ma non quando vengano in considerazione fattispecie come quella in esame, relative a un tributo (non commisurato al reddito e né oggetto di rivalsa) direttamente e pienamente inerente alla produzione del reddito. Un tributo così caratterizzato costituisce, infatti, un costo fiscale inerente di cui non si può precludere, senza compromettere la coerenza del disegno impositivo, la deducibilità una volta che il legislatore abbia, nella propria discrezionalità, stabilito per il reddito d’impresa il criterio di tassazione al netto”.

Mi sembra che questi principi siano senza problemi estensibili al “contributo straordinario contro il caro bollette”: l’imposta introdotta non è un’imposta sul reddito né un’imposta per cui è prevista la rivalsa; al contempo, la stessa appare non solo inerente all’attività di impresa, ma addirittura “strettamente" inerente alla produzione del valore aggiunto tassabile e, di riflesso, del reddito di impresa. Anche sotto questo profilo la nuova imposta appare in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione. 

 

Tutto quanto precede lascia presagire un percorso accidentato per il prelievo “ibrido” in questione, sull'incremento di un aggregato lordo non indicativo - se non in termini davvero troppo grossolani - della ricchezza prodotta dall’impresa, e men che meno di un extraprofitto, che appare sotto diversi aspetti censurabile sul piano del rispetto dei principi costituzionali della tassazione nonché di quelli sanciti dallo Statuto del contribuente. Forse una prospettiva per salvare il prelievo straordinario dalle più gravi censure di costituzionalità sopra prospettate potrebbe fondarsi sulla sua natura eccezionale e temporanea, profili cui la Corte Costituzionale ha talvolta attribuito rilevanza proprio nell’ottica di un “salvataggio", ma non si può oggi dire se ciò sarà sufficiente: come recentemente precisato proprio dai giudici costituzionali, "di per sé... la temporaneità dell’imposizione non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione a un’imposta, che potrebbe comunque risultare disarticolata dai principi costituzionali” (sentenza nn. 288/2019; 262/2020).

 


sabato 22 maggio 2021

"Eredità di Stato" e imposta livellatrice

Il recente libro di A.B. Atkinson (“Disuguaglianza. Che cosa si può fare”, Raffaello Cortina editore, 2015), dopo un esame della disugaglianza nei redditi e dei patrimoni, contiene alcune proposte per correggere gli assetti distributivi esistenti che sollevano diversi interrogativi, non solo dal punto di vista della tassazione.

Mi riferisco in particolare all’idea di una “eredità minima per tutti”, a una “dotazione di capitale”  assegnata a tutti all’ingresso nell’età adulta, da finanziare attraverso una “imposta sugli introiti da capitale nell’arco della vita”: in sostanza, da un tributo sulle successioni e donazioni ad aliquote progressive.

Atkinson propone di introdurre un tributo di scopo, ovvero un prelievo progressivo sugli arricchimenti gratuiti (“Eredità e donazioni inter vivos devono essere soggette a un’imposta progressiva sugli introiti da capitale nell’arco della vita”), col cui ricavato finanziare una dotazione di capitale universale (“Vi sono buoni argomenti contro l’ipoteca del gettito fiscale in generale, ma qui vi sono buone ragioni per creare un collegamento fra i due membri dell’equazione, quello dell’imposta e quello del beneficio”).

In questo modo Atkinson si inscrive tra i numerosi fautori dell’imposta redistributrice, assumendone appunto un fine “extrafiscale”, non già di strumento per produrre un gettito da impiegare nell’erogazione di servizi pubblici, bensì per operare una diretta redistribuzione delle ricchezze da alcuni ad altri individui. Intendiamoci: i tributi hanno normalmente effetti redistributivi, nella misura in cui prelevano quote crescenti del reddito e della ricchezza ad alcune classi di contribuenti, e il relativo gettito viene impiegato per erogare servizi e spesa pubblica a beneficio della generalità dei consociati, anche di coloro che non pagano imposte o ne pagano in misura non corrispondente al “costo” dei servizi di cui beneficiano. 

L’imposta livellatrice si propone invece quale fine la diretta “redistribuzione” delle ricchezze, di solito con travaso delle stesse da una ristretta platea di soggetti a una coorte più numerosa di individui meno abbienti. Orbene, Atkinson porta questa concezione dei tributi (che già solleva molte obiezioni, su cui ho argomentato diffusamente in altra sede) alle estreme conseguenze, addirittura suggerendo un tributo sui lasciti ereditari e le donazioni con un vincolo di destinazione nel gettito: utilizzare cioè il ricavato per finanziare una “dotazione di capitale” a tutti coloro che ogni anno raggiungono la maggiore età.

Per farne cosa? Atkinson non sembra preoccuparsene più di tanto (“qualsiasi restrizione farebbe aumentare significativamente i costi amministrativi”), se non per indicare che la dotazione di capitale dovrebbe ragionevolmente essere vincolata a un investimento in istruzione o formazione, o per l’acquisto di una casa o la creazione di una piccola impresa.

Qualsiasi opinione si possa avere sull’opportunità di una simile dotazione di capitale iniziale uguale per tutti, e sulle ascendenze filosofico-economiche dell’idea, vincolare l’“eredità di Stato” in modo dirigistico ad alcune finalità “nobili” mi sembra da un lato inefficiente sul piano allocativo, e dall’altro velleitario. Perché mai ogni individuo dovrebbe voler effettuare un sovrainvestimento in istruzione o apprendistato, o lo Stato dovrebbe volerlo per lui, evidentemente oltre gli ordinari percorsi di istruzione universali e obbligatori già sanciti dalla legge e finanziati col gettito delle imposte? E perché mai i maggiorenni dovrebbero essere “costretti” a impiegare la propria dotazione di capitale iniziale nell’acquisto di una casa - cui potrebbero non essere interessati, preferendo altri “investimenti” o scelte di vita - o addirittura nella creazione di una piccola azienda, non avendo magari alcuna vocazione imprenditoriale? Si tratterebbe poi, come detto, di vincoli velleitari: che cosa impedirebbe al beneficiario dell’“eredità di Stato”, dopo averla impiegata nell’acquisto di un appartamento o nell’intrapresa di un’attività economica autonoma, di liquidare e monetizzare l’investimento, utilizzandolo per altri fini non altrettanto commendevoli?

Insomma, se da un lato la mancata apposizione di vincoli all’utilizzo della dotazione patrimoniale la trasformerebbe probabilmente soltanto in una occasione di consumi per il maggiorenne (per viaggi vacanze, per l’acquisto di una chitarra elettrica, di una moto e così via), dall’altra l’apposizione di vincoli sarebbe criticabile per il suo dirigismo paternalistico, oltre a risultare in molti casi velleitaria.  

Un secondo aspetto della proposta che solleva a mio avviso seri dubbi è la sua compatibilità costituzionale e con i principi della tassazione. Il tributo di scopo immaginato da Atkinson (su cui mi soffermerò tra breve) darebbe luogo come detto a un gettito vincolato nella destinazione, cioè al finanziamento dell’eredità minima per tutti. Peccato però che un tale tributo, certamente collegato a una manifestazione di ricchezza e ability to pay (gli arricchimenti ricevuti a titolo liberale), non sarebbe collegato ad alcun servizio o carico pubblico. Nella nostra Costituzione, ad esempio, l’art. 53 – da cui la stessa Corte Costituzionale trae indicazioni per la “definizione” di tributo – collega il dovere tributario all’esistenza di una capacità di contribuire, e alla sua finalizzazione ai carichi pubblici (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”). 

Ora, si possono a mio avviso nutrire molti dubbi che quello proposto da Atikinson sia un tributo funzionale al finanziamento della spesa pubblica: il gettito verrebbe infatti meccanicamente prelevato da alcuni individui e riversato ad altri individui, non selezionati in relazione a uno stato di bisogno (inabilità al lavoro, disoccupazione involontaria, etc.) o a una delle finalità (previdenziali, assistenziali, sanitarie, e così via) che lo Stato deve perseguire. Paradossalmente, poi, ne beneficierebbero anche i maggiorenni già ampiamente dotati patrimonialmente dalla nascita. 

Lo Stato, in tutto questo, non svolgerebbe alcuna funzione né erogherebbe alcun servizio, limitandosi a redistribuire ricchezze da una categoria di soggetti (i destinatari di liberalità) ad una diversa categoria (tutti i cittadini divenuti maggiorenni). A questa stregua, tutte le dirette redistribuzioni di ricchezza sarebbero allora ammissibili: perché non un trasferimento diretto dai cittadini di aree economicamente più avvantaggiate a quelli residenti in aree geografiche svantaggiate? O dall’universo maschile a quello femminile? O dai soggetti alti di statura (che hanno maggiore probabilità di successo nella vita) a quelli bassi? Col solo vincolo di incidere su ricchezze esistenti, l’imposta redistributrice pura “alla Atkinson” si trasformerebbe nell’ossimoro di un tributo non finalizzato all’erogazione di servizi pubblici, non funzionale al perseguimento di uno dei fini dello Stato (ancorché sociale), bensì a una correzione dei diritti proprietari fine a se stessa. Ma un intervento di questo tipo, se non legittimabile ex art. 53 Cost., si scontrerebbe con le norme costituzionali, diventando non un tributo destinato a finanziare spese pubbliche bensì una espropriazione senza indennizzo. 

Alla proposta di Atkinson possono poi essere mosse le stesse critiche che si possono rivolgere ai fautori della redistribuzione per mezzo dell’imposta: si tratta di interventi ex post, per correggere patterns distributivi ritenuti “ingiusti” - secondo scale di valori e orientamenti politici - determinati da regole di acquisizione proprietaria, diritti di trasmissione ereditaria, accesso alle professioni, norme sulla concorrenza, accesso al credito, a una istruzione e servizi di sanitari di qualità, e via discorrendo. Se tuttavia si reputano tali regole ingiuste e da correggere, è appunto sulle stesse che occorre intervenire, non già propugnando un incessante meccanismo redistributivo e livellatore attraverso l’imposta. 

Veniamo, infine, al tipo di tributo immaginato da Atkinson per finanziare l’eredità minima di Stato uguale per tutti. Dopo alcuni stereotipi (e a mio avviso anacronistici) cenni a una tassazione ultraprogressiva sui redditi, con aumento delle aliquote su tutti gli scaglioni e una aliquota massima del 65% (già oggi il gettito fiscale dell’imposta sul reddito è in molti casi, non solo nei Paesi anglosassoni, sopportato in gran parte dagli individui più abbienti), Atkinson delinea i tratti del tributo che dovrebbe finanziare l’eredità minima per tutti. 

Ci si mette qualche istante a capirlo, ma il tributo “sugli introiti da capitale nell’arco della vita”, che dovrebbe sostituire l’esistente imposta sulle successioni (Atkinson si riferisce a quella britannica), non è altro che un’imposta sulle successioni e donazioni ad aliquote progressive; senza scomodare gli economisti del XIX secolo (per Atkinson “L’idea di un tributo di questo genere non è rivoluzionaria; è stata proposta più di un secolo fa da John Stuart Mill”), basti ricordare che un tributo del genere era vigente in Italia prima della riforma del 2001: si trattava di un’imposta sui lasciti ereditari e le donazioni effettuate in vita, che erano tassate salvo “coacervo” finale – in sede di ricostruzione ai fini fiscali dell’asse ereditario - con le precedenti donazioni, su cui ricalcolare una scala di elevate aliquote progressive (che restavano tuttavia in larga misura inapplicate per le ragioni di cui subito dirò).

Tutti i fautori di imposte sulle successioni e donazioni ad aliquote fortemente progressive, quasi confiscatorie (Atkinson, che addirittura inquadrerebbe le liberalità nell’ambito dell’imposta sul reddito, ritiene che “nel caso della ricchezza ereditata possono esserci motivi per prevedere un’aliquota marginale massima superiore la 65%"), trascurano un dato fondamentale, ben conosciuto ai giuristi: e cioè la difficoltà di progettare efficacemente un’imposta in grado di colpire i trasferimenti informali e le donazioni indirette, non formalizzate in un atto pubblico di donazione ma attuate attraverso schemi negoziali onerosi o neutri (contratti a favore di terzo, intestazioni di beni a nome altrui, volontaria inerzia nella riscossione di crediti, rinunce, e così via), che non si qualificano in senso liberale e pongono quasi insormontabili problemi di accertamento. 

Il rischio, insomma, è che ogni proposta di rivitalizzare il tributo sui trasferimenti gratuiti della ricchezza manchi lo scopo, e di mancarlo tanto più quando aliquote confiscatorie inducono i privati a cercare modalità non formalizzate per trasferire ricchezza ai propri congiunti. 

 

 

martedì 3 dicembre 2019

Il MES tra deficit democratico e sovranità perduta

Le polemiche sul cd. “fondo salva Stati”, centrate su un presunto deficit di democrazia del meccanismo, di pesante intromissione nella sfera di sovranità dello Stato beneficiario dell’aiuto, di “colpi di stato” e sovvertimento delle regole solidaristiche a vantaggio di ciniche operazioni governate da bieche logiche di mercato (come quelle di Paolo Becchi e di Lidia Undiemi), sembrano non tener conto dell’attuale assetto dei rapporti tra gli Stati dell’Unione Europea, di cui il fondo salva Stati (meccanismo europeo di stabilità) è soltanto un riflesso.
Il punto è che l’Unione Europea non è uno Stato federale, e forse nemmeno una confederazione tra Stati: l’Unione Europea, indipendentemente da come la si voglia inquadrare, al di là di dazi doganali, prelievi agricoli e una piccola percentuale dell’Iva, non dispone di tributi propri, e i suoi trattati istitutivi non contemplano trasferimenti di risorse tra Stati membri per perequare la diversa capacità fiscale dei cittadini dell’Unione.
E’ noto del resto che la politica fiscale resta appannaggio dei singoli Stati membri sovrani, al di là dell’armonizzazione in materia di imposte sul consumo, e il gettito fiscale di ogni Stato è vincolato ad una spesa pubblica che ha contorni nazionali. Non esistono insomma contribuenti “europei”, ma contribuenti tedeschi, francesi, italiani, greci, e così via.
In questo scenario, si spiega che l’attivazione di un meccanismo per la stabilità finanziaria dell’eurozona sia stato disciplinato non già da un regolamento o  una direttiva comunitaria, cioè da regole capaci di vincolare i singoli cittadini dell’Unione, bensì da un apposito trattato multilaterale, cui hanno aderito gli Stati membri che dell’eurozona fanno parte. A questo livello, ogni Stato, nei rapporti con tutti gli altri Stati, non opera nella sua veste di ente dotato di sovranità (attributo che concerne il rapporto con i cittadini), comportandosi piuttosto alla stregua un soggetto privato tra altri suoi “pari”. Nel diritto internazionale opera come noto il principio “superiorem non recognoscens”, dunque non sorprende che il cd. meccanismo europeo di stabilità sia basato su un trattato che presenta forti similitudini con istituti privatistici, a conferma peraltro dell’osmosi sussistente in generale tra un ramo e l’altro del diritto, ed in ultima analisi del carattere unitario del diritto stesso, al di là dei settori in cui lo stesso è tradizionalmente compartimentato per fini didattici o accademici.
Le clausole del trattato sul MES appaiono in effetti ispirate ad una duplice matrice, ovvero da un lato ai meccanismi della governance e della “democrazia” (non rappresentativa bensì) societaria, dall’altro a quella della mutua assicurazione. Sotto il profilo strutturale, il MES è dotato di personalità giuridica propria (trattandosi di una istituzione finanziaria internazionale) ed ha uno “statuto” che presenta significative assonanze con quello delle società per azioni. E così per la governance e le regole di voto, da assumersi dal consiglio dei governatori (l’equivalente dell’assemblea dei soci) composto dai rappresentanti degli Stati aderenti (i “soci”), sulla base della regola della maggioranza, per la formazione della quale non opera il principio del voto capitario, bensì quello della proporzionalità alle quote di capitale versato (art. 4); per la nomina di un consiglio di amministrazione (art. 6); per la presenza di un fondo di dotazione, cioè di un capitale autorizzato (deliberato) e di un capitale versato (art. 8); per una disciplina del mancato pagamento delle quote (art. 4 co. 8) – sospensione del diritto di voto - uguale a quella prevista per i soci morosi delle società per azioni; per la possibilità di distribuire dividendi e profitti degli investimenti ai membri del MES allorché capitale e fondo di riserva risultino eccedenti rispetto agli scopi “statutari” (art. 23); per le regole su riserve, coperture di perdite, conti annuali, e così via.
Sul piano degli scopi, il trattato risponde invece alle esigenze delle mutue assicuratrici: anche se, come visto, non è affatto escluso il conseguimento di profitti e la distribuzione degli stessi ai partecipanti, la finalità ultima del MES non è certo lucrativa, quanto mutualistica. Ogni Stato dell’eurozona, partecipando all’organismo in questione, stipula una sorta di assicurazione, versando un contributo nella prospettiva di trovarsi forse un giorno nella condizione di beneficiare, in via diretta, dell’assistenza finanziaria del MES, o comunque di trarre indiretto vantaggio dalla stabilizzazione dell’intera zona euro.
Le similitudini con gli istituti privatistici, con il diritto societario e le mutue assicuratrici, si fermano però al livello dei rapporti tra gli Stati, non potendo ovviamente coinvolgere il rapporto verticale, tra ciascuno Stato e i propri cittadini. E questo spiega perché il MES non è (e non avrebbe potuto essere concepito come) un ente filantropico o di beneficienza, di assistenza disinteressata, come una azienda di erogazione: gli interventi di assistenza finanziaria sono infatti soggetti a una rigorosa “condizionalità”, i prestiti del MES fruiscono dello status di creditore privilegiato, l’assistenza finanziaria è subordinata a un programma di aggiustamento macroeconomico (che il membro MES che ha richiesto l’aiuto dovrà  negoziare con la Commissione Europea), e a una valutazione di sostenibilità del debito pubblico.
In effetti, se un privato può al limite decidere di concedere prestiti a soggetti privi di merito creditizio, accettando senza problemi il rischio della mancata restituzione, o addirittura compiendo atti di rimessione del debito o rinuncia al credito (trattandosi di diritti patrimoniali, come tali disponibili), non altrettanto possono fare gli Stati e gli enti pubblici in genere. Uno Stato non può erogare fondi ad altri Stati “a fondo perduto”, senza valutare la concreta possibilità di restituzione, ed è per questo che appare oggi imbarazzante dover prendere atto della (altamente probabile) inesigibilità dei crediti erogati in passato alla Grecia, e che si sono poste condizioni molto stringenti cui subordinare il nuovo programma di aiuti. Col rischio peraltro che, nonostante tutto, si finisca per aggravare la situazione, erogando  ulteriore credito ad un debitore già insolvente.
Per ragioni analoghe a quelle sottostanti alla cosiddetta “indisponibilità del crediti tributari” – per cui l’ente pubblico impositore non può tendenzialmente rinunciare a riscuotere i tributi dovuti, concedendo sconti o  abbattimenti, dovendo rendere conto alla restante platea dei contribuenti che da ciò riceverebbe un pregiudizio - così gli Stati che, attraverso il MES, accordino aiuti finanziari nella logica mutuamente assicurativa di cui sopra, lo devono fare soltanto previa verifica positiva della “sostenibilità del debito pubblico” del membro in difficoltà: in caso contrario, l’aiuto finanziario perderebbe le sue caratteristiche creditizie, trasformandosi in un mero trasferimento o sussidio a fondo perduto.
Ma una logica puramente solidaristica di questo tipo, che pure alcuni ritengono auspicabile, non rientra nel novero delle forme di solidarietà contemplate dal diritto dell’Unione Europea, limitate ai casi dei richiedenti asilo, oppure a quello oggi previsto dall’art. 222 del Trattato di Lisbona, che prevede una clausola di solidarietà qualora uno Stato membro sia vittima di attacco terroristico o di calamità naturale. Non è invece affatto contemplata una solidarietà finanziaria nel senso in cui di solito intendiamo il termine, con riguardo ai trasferimenti monetari di risorse tra territori con diversa capacità fiscale, in modo da consentire a tutte le popolazioni analoghi livelli dei servizi, almeno di quelli essenziali .
Nel quadro dei rapporti tra Stati dell’UE o dell’eurozona, ciascuno Stato può contare sulle entrate fiscali attingibili nell’esercizio della propria sovranità nei confronti dei contribuenti assoggettati alla sua giurisdizione, ma non può certo contare né pretendere che altre collettività e gruppi sociali, prive di legami col suo territorio, contribuiscano e si facciano carico delle sue spese pubbliche e men che meno dei suoi deficit di bilancio.
Ed è questa la ragione, in definitiva, per cui ogni aiuto finanziario tra Stati (ancorché tutti appartenenti all’eurozona) non può mai diventare esplicitamente un trasferimento a fondo perduto, poiché verrebbero sovvertite regole consolidate da secoli, radicate nelle tradizioni costituzionali: e cioè il legame territoriale tra entrate fiscali e spesa pubblica. Una surrettizia trasformazione degli aiuti finanziari in trasferimenti già ex ante senza prospettiva di restituzione spezzerebbe il legame tra il dovere fiscale e il concorso alle spese pubbliche, giacché i contribuenti di una nazione si troverebbero a contribuire alle spese di altre collettività, come avevo evidenziato in un precedente post).
E’ questo il rischio oggi implicito nei nuovo piano di aiuti finanziari alla Grecia: e se vogliamo esprimerlo in termini di perdita di sovranità, la dovremmo allora riferire non allo Stato destinatario dell’aiuto, bensì a quelli erogatori, “costretti” a destinare le proprie entrate fiscali alla soddisfazione di bisogni di altre collettività. Quanto al deficit di democrazia del meccanismo di aiuti, se ne dovrebbero semmai lamentare i cittadini degli Stati creditori, chiamati a pagare tributi per far fronte a spese in deficit non deliberate dai propri rappresentanti e di cui essi non hanno beneficiato. 
  • Creato il 

venerdì 4 ottobre 2019

Tagli selettivi alle detrazioni Irpef, a volte ritornano

Tra le misure allo studio per la manovra di bilancio 2020 vi sarebbe un taglio selettivo, a valere solo sui redditi più elevati, delle detrazioni e deduzioni fiscali, che verrebbero progressivamente ridotte (phase out) a partire da 100 mila euro, fino ad azzerarsi per i redditi superiori a 300 mila euro. Una misura del genere era già stata prospettata nel 2015, da parte degli allora commissari alla spending review, che avevano preso di mira le tax expenditure, sempre immaginando un meccanismo di sfoltimento selettivo, concentrato sui redditi più elevati. Ripropongo di seguito, con qualche piccola variante, una riflessione che avevo fatto all’epoca, la cui validità argomentativa mi sembra intatta. Del resto, nel "giorno della marmotta” della politica fiscale italiana, siamo condannati a rivivere sempre le stesse magnifiche esperienze.
Tagliando le detrazioni e le deduzioni nel modo descritto, si realizzerà un surrettizio inasprimento della curva di progressività delle aliquote sugli scaglioni di reddito più elevati, con una non irrilevante perdita dei tratti di personalità dell’imposta (già seriamente compromessi, tra l’altro, dal continuo proliferare di regimi sostitutivi, tipici delle imposte “reali”). L'Irpef è infatti un'imposta personale non solo perché tassa i redditi progressivamente (non tutti, a dire il vero), ma anche e forse soprattutto perché riconosce la situazione personale e familiare del contribuente nel modulare il debito tributario, ad esempio riconoscendo che un soggetto che sostiene spese mediche o di assistenza, magari ingenti, non ha - a parità di reddito posseduto - la stessa capacità di contribuire di un soggetto in buona salute e che può dedicare interamente il suo reddito ai consumi o al risparmio.
Ora, il taglio selettivo delle detrazioni o deduzioni, soltanto a carico dei redditi più elevati, mantiene la personalità dell'imposta solo dove fa comodo agli interessi erariali (e indirettamente alla platea dei contribuenti non toccati dal taglio), cioè in punto progressività, eliminandola invece nella parte in cui si tratterebbe di riconoscere il carattere "sociale" delle spese sostenute dal singolo, evitando di tassare redditi solo apparenti, in quanto erosi da spese di cui il contribuente farebbe magari a meno, come le spese mediche, sanitarie, per l’acquisto di farmaci, contributi previdenziali per badanti, etc. (secondo il principio di tassazione del “clear income”). A pagare il taglio delle tax expenditure saranno dunque non soltanto "i soliti noti", cioè quei pochi lavoratori dipendenti o autonomi che dichiarano redditi elevati, ma tra questi quelli in possesso di redditi falcidiati da spese a volte necessarie per l'esistenza, che solo per loro risulteranno irrilevanti nel calcolo del debito d'imposta.
L'Irpef, se passerà questo disegno, rischia così di diventare un tributo progressivo non solo “speciale”, cioè confinato ad alcune categorie di contribuenti, ma ancor più selettivo e discriminatorio (un tributo "votato dalla maggioranza a carico della minoranza", come temeva von Hayek).

venerdì 13 settembre 2019

Evasione, lotta al contante e (dis)incentivi perversi

Vista l’attenzione che i media stanno dedicando alla proposta di Confindustria di “tassare” il contante (i prelievi al bancomat sopra una certa soglia mensile), non è forse inutile tornare sul tema con qualche riflessione più strutturata, partendo dai dichiarati obiettivi dei proponenti: scoraggiare l’evasione nel settore distributivo e determinare l’emersione di attività non tassate. 

La proposta, che ha suscitato reazioni soprattutto sul versante del disincentivo all’uso del contante mediante introduzione di una “commissione” (sic) in percentuale dei prelievi da ATM o sportello, prevede tuttavia anche un incentivo all’uso della moneta elettronica sotto forma di un credito d’imposta del 2 per cento al cliente che effettua i pagamenti in tale forma. 
La combinazione di incentivi e disincentivi va dunque traguardata per la sua effettiva possibilità di raggiungere l’obiettivo (contrastare l’evasione da occultamento dei corrispettivi), e per il suo impatto sul sistema degli adempimenti amministrativi e fiscali. Al riguardo, lasciando a latere inconcludenti e qui irrilevanti discussioni sulle “esternalità negative” prodotte dall’uso di denaro contante, sembra possibile osservare quanto segue:

1) Quanto all’incentivo, si parla nella proposta di “credito di imposta” ma subito dopo di “detrazione”; non si tratta tuttavia di concetti equivalenti, posto che il credito è rimborsabile e dunque può essere fruito anche dagli incapienti, a differenza della detrazione. In ogni caso, il credito/detrazione verrebbe utilizzato “al momento della dichiarazione dei redditi”, sulla base del certificato prodotto dagli istituti di credito recante l’ammontare dei pagamenti elettronici effettuati nell’anno solare. Ciò determinerebbe, atteso che tutti consumano e dunque l’incentivo riguarderebbe l’intera popolazione, un verosimile significativo incremento del numero delle dichiarazioni dei redditi. Molti dei circa 11 milioni di contribuenti (lavoratori dipendenti e pensionati) che oggi non presentano la dichiarazione per mancanza di debiti d’imposta, dovrebbero iniziare a presentarla per far valere la nuova tax expenditure, ovvero per scomputare la detrazione dalle imposte dovute a saldo in dichiarazione e/o ottenere il rimborso del credito di imposta (se invece il 2 per cento funzionasse come vera “detrazione” non rimborsabile, con esclusione degli incapienti, non vi sarebbero dichiarazioni aggiuntive ma una larghissima fascia della popolazione resterebbe estranea al sistema con depotenziamento dell’incentivo).
Il sistema verrebbe dunque significativamente appesantivo, con tutti i connessi costi amministrativi e di transazione sia per il settore pubblico (l’Agenzia dovrebbe “lavorare” alcuni milioni di dichiarazioni aggiuntive, ed erogare moltissimi micro-rimborsi) che per il settore privato. Probabilmente molti contribuenti, con reddito e capacità di consumo medio-bassa, che oggi non presentano la dichiarazione, vedrebbero fortemente ridotto o annullato il beneficio dell’incentivo fiscale, sopravanzato dai costi connessi alla predisposizione e presentazione della dichiarazione dei redditi. Ne deriva che, per molti consumatori, l’incentivo non produrrebbe gli effetti sperati, di spostamento delle abitudini di pagamento.

2) Il significativo esborso iniziale connesso alla nuova tax expenditure (5,7 miliardi di euro), stimato dai proponenti e connesso all’attuale stock di pagamenti elettronici, potrebbe non accompagnarsi, nel modo sperato, a una riduzione dell’evasione. È plausibile ipotizzare, infatti, che molti consumatori utilizzerebbero il sistema di incentivi in modo opportunistico, a proprio esclusivo vantaggio: da un lato, utilizzando mezzi elettronici e tracciati di pagamento anche nei piccoli o medi pagamenti quotidiani in cui oggi vengono sovente impiegati i contanti (dal caffè al bar alla spesa al supermercato, dall’acquisto di abbigliamento al pagamento di bollette), spesso effettuati presso la grande distribuzione, pubbliche utilities ed esercizi commerciali che certificano regolarmente le vendite emettendo scontrini e ricevute, proprio al fine di beneficiare del “credito di imposta” e quindi di fatto ottenere uno sconto del 2 per cento sui consumi effettuati. Ma dall’altro, tenendo a disposizione il contante per pagare le transazioni “non ufficiali”, nei confronti di commercianti, artigiani, imprenditori e professionisti non organizzati: il credito di imposta del 2 per cento non sarebbe infatti quasi mai in grado di far venir meno, per il consumatore, la convenienza ad accettare transazioni commerciali in nero, se solo si riflette sul livello attuale delle aliquote Iva (10 o 22 per cento), forse con la sola eccezione delle prestazioni esenti (come quelle mediche e sanitarie). L’incentivo fiscale (il credito d’imposta del 2 per cento), dunque, avrebbe sì l’effetto di aumentare il numero di transazioni elettroniche, ma queste sarebbero in grandissima misura relative ad acquisti che già oggi avvengono nell’ambito di transazioni commerciali regolari.

3) La considerazione di cui al punto precedente si collega altresì all’altro versante della proposta, ovvero la “commissione” (imposta?) sui prelievi di contante al bancomat o allo sportello: spostandosi, per pure ragioni di convenienza fiscale dal lato-consumatore, le abitudini di pagamento dei consumi dal “contante” alla “carta elettronica”, diminuirebbe la necessità di passare al bancomat per  rifornirsi dell’argent de poche, e dunque il plafond a disposizione per prelievi entro la soglia mensile di 1.500 euro aumenterebbe corrispondentemente, lasciando ampio spazio per continuare a usare il contante per pagare in nero artigiani, commercianti e professionisti.

4) Sotto un diverso profilo, la fruizione del credito di imposta in dichiarazione dei redditi rischia di risolversi in un trattamento discriminatorio a carico dei soggetti non residenti (turisti, persone che non soggiornano abitualmente nel nostro paese, etc.), che non potrebbero fruire del credito non possedendo un codice fiscale e non presentando la dichiarazione in Italia. Sotto questo aspetto, e proprio ponendosi dal punto di vista degli obiettivi della misura proposta da Confidustria, la situazione del non residente che effettua acquisti in Italia mi sembra perfettamente assimilabile a quella del consumatore residente. Anche nei confronti del non-residente che effettua consumi in Italia, infatti, valgono le stesse esigenze – nella prospettiva antievasiva della misura - di incentivare il pagamento con mezzi elettronici, a scapito dei pagamenti in contanti. L’esclusione dei consumatori non residenti che effettuano acquisti presso esercizi commerciali italiani dal novero dei soggetti in grado di fruire del credito di imposta potrebbe dunque non superare una censura davanti alla Corte di Giustizia, per quella che sembra a prima vista costituire una ingiustificata discriminazione.

5) Quanto al lato del disincentivo, vi è una importante questione preliminare di inquadramento giuridico legata all’incerta qualificazione della misura, denominata come “commissione”. Si tratta tuttavia di una qualificazione impropria, posto che tale “commissione” verrebbe prelevata dalle banche ma girata allo Stato, che utilizzerebbe il gettito per far fronte alla nuova tax expenditure di cui si è detto ai punti precedenti. Si tratterebbe dunque di una prestazione patrimoniale imposta in base alla legge (art. 23 Cost.), che in quanto finalizzata a reperire mezzi finanziari all’ente pubblico (lo Stato userebbe le risorse in esame per finanziare il programma di incentivi fiscali di cui si è detto sopra) parrebbe rivestire natura tributaria, anche perché ipotetiche alternative – come quella sanzionatoria – possono essere escluse, dato che il ritiro di denaro contante dai conti correnti, per utilizzarlo al fine di pagamenti o come riserva di valore, non è certo una attività illecita (ci mancherebbe altro, essendo il contante il legal tender). Ma a quel punto quella che Confidustria qualifica come “commissione”, avendo in realtà natura tributaria, di vera e propria “imposta”, dovrebbe rispettare l’art. 53 Cost., cioè riferirsi a una specifica capacità contributiva dell’obbligato (il correntista che effettua prelievi sopra soglia). Sotto questo profilo però, si finirebbe per tassare un fatto “neutro” sul piano delle manifestazioni di ricchezza usualmente assoggettate al tributo. Si tassano infatti le transazioni e gli scambi commerciali, nella loro duplice valenza reddituale (per il produttore o il distributore) e di consumo (per l’acquirente finale), ma non i mezzi di pagamento utilizzati come corrispettivo di quelle transazioni. Considerandola d’altra parte un’imposta patrimoniale, occorrerebbe vedere in che limiti possa sostenersi che un soggetto che effettua prelievi di contante da un ATM svela una maggiore capacità contributiva rispetto a chi tiene i propri soldi in banca senza prelevare, oppure li tiene direttamente presso di sé senza mai prima depositarli presso qualche istituto di credito. 

5) Ancora, la gestione della soglia di prelievi superiori a 1.500 euro mensili, oltre la quale scatterebbe il pagamento della “commissione”, sarebbe facilmente aggirabile distribuendo la liquidità su più conti, ed a tal proposito la contromisura di riferire la soglia al soggetto che preleva, e non al conto dal quale si preleva, non pare coercibile poiché i singoli istituti di credito non possono sapere quanti e quali conti il loro cliente possieda in altri istituti e come questi vengano movimentati.

Non mi sembra proprio, in definitiva, che il pacchetto di incentivi e disincentivi ideato da Confidustria possa efficacemente raggiungere l’obiettivo che si prefigge, ovvero scoraggiare l’evasione. Potrebbe certo contribuire ad aumentare il numero delle transazioni elettroniche, ma al prezzo di: 

(i) intasare il sistema amministrativo inondandolo di milioni di dichiarazioni dei redditi aggiuntivi, sottraendo inutilmente energie all’Amministrazione finanziaria, 

(ii) far aumentare i costi complessivi di transazione connessi alla compliance fiscale, 

(iii) rischiare una censura davanti agli organi comunitari, 

(iv) produrre una significativa perdita di gettito dovuta alla nuova tax expenditure di tipo massivo, che coinvolgerebbe non meno di 40 milioni di contribuenti-consumatori, data la facilità con cui il pagamento della “commissione” - finalizzato al finanziamento della tax expenditure - potrebbe essere aggirato.

giovedì 12 settembre 2019

Una tassa sui prelievi al bancomat, come se fosse antani

Circolano da qualche giorno proposte di tassazione dei prelievi di contante al bancomat oltre una certa soglia mensile, come arma finale contro l’evasione (si veda quella apparsa in un’intervista al Corriere e quella avanzata da Confindustria). 
A parte il senso di déjà vu (una genialata del genere venne avanzata qualche anno fa da Milena Gabanelli), si resta attoniti dalla totale mancanza di consapevolezza delle problematiche giuridiche e tecniche che una iniziativa del genere implicherebbe. 
Non si comprende nemmeno a quale titolo la somma verrebbe prelevata dallo Stato, per il tramite delle banche, visto che di volta in volta vengono evocate (mi riferisco alla proposta di Confindustria) le figure della commissione (come se si trattasse di un onere bancario), dell’imposta (ma quale sarebbe l’indice di capacità contributiva?), della sanzione (a fronte di quale violazione?). 
A fronte di idee così confuse, che hanno zero possibilità di essere attuate, sarebbe uno spreco di tempo addentrarsi in un analitico debunking. Mi limito alle seguenti osservazioni: se la “somma” (commissione? Imposta? Sanzione?) operante da disincentivo al prelievo deve essere prelevata dall’istituto bancario presso il quale è acceso il conto corrente, al superamento della soglia (1.500 euro al mese?), sarebbe ovviamente sufficiente spalmare la propria liquidità su più conti ed evitare così il balzello. 
Ma ai brillanti proponenti una cosa del genere certo non poteva sfuggire, ed ecco emergere la contromisura: il superamento della soglia dovrà essere verificato non più in relazione al singolo conto, bensì su base soggettiva, considerando il totale dei prelievi effettuati dal cliente/contribuente/trasgressore.
Ma chi farà allora da “sostituto d’imposta”? Come potrà ciascuna banca conoscere i prelievi effettuati mensilmente dal proprio cliente presso altri istituti di credito? E quid iuris per i conti tenuti presso banche estere, cui certo non si può chiedere di fare da sostituti d’imposta? La commissione/imposta/sanzione sarà in tal caso liquidata in autodichiarazione? Sento già i polli che ridono. 

Toh, c’è un buco nel gettito sugli extraprofitti: “intollerabile elusione” o riflesso della sospetta incostituzionalità della norma?

La reazione indignata per quella che è stata definita una “intollerabile elusione” perpetrata dalle imprese destinatarie dell’imposta straor...