venerdì 10 marzo 2017

Progressività anagrafica e tassazione di genere, rischio incostituzionalità

Stando alle dichiarazioni rilasciata alla stampa questa settimana, il Governo starebbe pensando di modulare le aliquote Irpef non solo in funzione del reddito ma anche dell’età anagrafica, agevolando i giovani in quanto soggetti socialmente “deboli”. Non mancano poi analoghe proposte a favore delle donne, per tener conto della loro posizione di svantaggio nella famiglia e sul posto di lavoro.
Nell’assegnare alla leva fiscale compiti di politica economica e un improprio fine redistributivo, simili proponimenti paiono tuttavia di problematica attuazione: difficilmente una progressività  corretta in base a uno status, come l’età o il sesso, potrebbe rispettare il principio di uguaglianza tributaria (artt. 3 e 53 Cost.) in un giudizio di costituzionalità. Questo verrebbe promosso, come accade quando è in gioco un regime di maggior favore, da parte di coloro che non vi hanno accesso (qui, i contribuenti in età matura o di sesso maschile), onde essere ammessi al regime più benevolo (allegando la pari capacità contributiva dei loro redditi rispetto a quella dei contribuenti agevolati).
Certo, come affermato dalla Corte l’uguaglianza tributaria “non impone una tassazione uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria”; del resto il sistema è costellato da plurimi regimi di tassazione dei redditi, distorsivi ma probabilmente al riparo da censure di costituzionalità, data la difficoltà di comparare ricchezze di diversa natura e fonte produttiva, anche in ragione delle variegate modalità di determinazione degli imponibili (si pensi ai redditi finanziari, tassati con aliquota proporzionale ma calcolati al lordo dei costi e dell’inflazione).
Sarebbe tuttavia azzardato fondare una differenziazione delle aliquote Irpef in funzione di uno status del contribuente, come l’età, atteso che in tal caso dovrebbe essere dimostrata la ragionevolezza di un trattamento più benevolo, in termini di minore capacità contributiva per redditi di identica natura ed ammontare.
La stessa giurisprudenza costituzionale non autorizza letture tranquilizzanti. Si pensi alle pronunce con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità di prelievi a carico di pubblici dipendenti o pensionati, per l’irragionevole discriminazione rispetto alla restante platea di contribuenti (C.Cost. 223/2012 e 116/2003), o dell’aliquota maggiorata per le società operanti in certi settori (C.Cost. 10/2015). 
Nei rari casi in cui la Corte ha giustificato aliquote addizionali selettive, mirate a particolari soggetti, si trattava invece di regimi transitori e a carattere temporaneo (come per la maggiore aliquota Irap del settore bancario: C.Cost. 21/2005), oppure di peculiari elementi della retribuzione percepiti da dirigenti in grado di mettere a repentaglio la stabilità dei mercati finanziari (C.Cost. 201/2014). È significativo, poi, che una differenziazione del trattamento tributario sulla base del “genere” (la ridotta aliquota Irpef sugli incentivi all’esodo, cui le donne avevano più largo accesso) sia caduta in quanto inammissibile discriminazione basata sul sesso (Corte di Giustizia, C-207/04).
Occorrerebbe dunque dimostrare, per giustificare aliquote più basse sui giovani e più elevate sulla generazione “matura”, una diversa capacità contributiva dei redditi percepiti da contribuenti con differente età anagrafica. Ma su questo terreno gli argomenti addotti  dai fautori delle proposte in commento, che richiamano un po’ a sproposito il principio di discriminazione qualitativa (il quale attiene a un profilo di “oggettiva” diversità dei redditi, estraneo al tema in discussione), appaiono assai deboli e controvertibili.
Si afferma infatti che la giovane età sarebbe un fattore di debolezza sociale, dato il problematico accesso al lavoro, la diminuità capacità di produrre reddito, le spese necessarie alla formazione di una famiglia. Sennonché, il problema dell’occupazione riguarda in primis i giovani senza lavoro e quindi privi di redditi, mentre per incentivarne l’assunzione andrebbe semmai ridotto il costo del lavoro “lato impresa”.
Quanto alla diversa capacità retributiva collegata all’età anagrafica, l’Irpef ne tiene già conto applicando minori aliquote sui redditi meno elevati, mentre non si comprende perché a parità di retribuzione un soggetto “maturo” dovrebbe essere tassato di più. Infine, anche l’argomento della “formazione di una famiglia” è fallace: è più probabile che i carichi familiari gravino sulle persone in età adulta, e comunque se ne dovrebbe tener conto con misure ad hoc, non già modulando la progressività in funzione di condizioni sociali (come l’età anagrafica) non espressive di una differenziata capacità economica. Anche perché, altrimenti, si sconfinerebbe presto nell’arbitrio, segmentando ulteriormente l’Irpef e avallando le più fantasiose imposizioni. Che cosa impedirebbe, a quel punto, di ipertassare le persone più alte, dato che a quanto pare la statura influenza positivamente la retribuzione?
Occorre tuttavia farsi carico di una possibile obiezione, che potrebbe essere fondata sulla presenza, nell’ordinamento italiano, di regimi differenziati di tassazione in qualche modo collegati all’età anagrafica del soggetto passivo, come accadeva per il regime di vantaggio per l’imprenditoria giovanile. 
Quel regime, oltre a essere temporaneo, non intendeva tuttavia differenziare il trattamento dei redditi in quanto percepiti da soggetti in giovane età, quanto agevolare le nuove imprese e attività economiche indipendenti, per favorirne la nascita e lo sviluppo nella loro fase di start up. Si trattava dunque di un’agevolazione di carattere “oggettivo”, mirata solo a determinati redditi “minimi” (di impresa e lavoro autonomo), e non allo status anagrafico del soggetto, il quale rilevava soltanto quale ulteriore requisito di accesso al regime. Tanto è vero, poi, che quel regime è stato assorbito nel nuovo regime forfettario per le attività indipendenti di piccola dimensione, che non attribuisce più alcun rilievo al fattore anagrafico.
Da questa riflessione emerge semmai, in controluce, un ulteriore motivo di perplessità per l’ipotesi di una doppia curva di progressività in funzione dell’età anagrafica. La più morbida curva che si ipotizza per i più giovani appare infatti tutta incentrata sull’ipotesi dei lavoratori dipendenti, come si ricava dai riferimenti alla difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro e alla “maturità lavorativa”, che allude a una diminuità capacità del lavoratore in giovane età di accedere a elevati livelli retributivi. Ebbene, una curva di progressività “di vantaggio”, riservata ai più giovani, non potrebbe che essere estesa ad ogni tipologia reddituale, a meno che i fautori della proposta non abbiano in mente una ulteriore abnorme segmentazione di tipo orizzontale, con creazione di tanti micro-sistemi progressivi e di più imposte speciali. 
Se ai giovani venisse riservata una curva di progressività "di vantaggio”, dunque, questa non potrebbe che applicarsi al reddito “complessivo”, in cui confluiscono non solo i redditi di lavoro dipendente ma anche quelli di altre categorie (redditi fondiari, di lavoro autonomo, redditi diversi, etc.). E se è vero che molti redditi sfuggono di diritto alla progressività per essere oggetto di cedolari secche e imposte sostitutive, residuano nell’Irpef progressiva cespiti reddituali diversi da quelli derivanti da lavoro dipendente. Non si può dunque escludere che una progressività di vantaggio per i più giovani favorisca soggetti che traggono sostentamento non già da un’attività di lavoro dipendente, ma da altre fonti, come ad esempio da un ingente patrimonio immobiliare ricevuto in eredità e concesso in locazione. Siamo davvero sicuri che, in queste circostanze, abbia un senso trattare più benevolmente tali guadagni soltanto perché percepiti da un soggetto in giovane età?

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