domenica 7 agosto 2022

Toh, c’è un buco nel gettito sugli extraprofitti: “intollerabile elusione” o riflesso della sospetta incostituzionalità della norma?

La reazione indignata per quella che è stata definita una “intollerabile elusione” perpetrata dalle imprese destinatarie dell’imposta straordinaria sugli extraprofitti, esposte all’odio popolare e addirittura minacciate con un inasprimento delle sanzioni per essersi sottratte agli obblighi di versamento, dovrebbe forse lasciare spazio a un atteggiamento più prudente e meno assertivo.  

A quanto pare i versamenti dell’acconto risultano largamente inferiori al previsto, con un incasso pari appena al 20% di quanto era stato stimato dal Mef: ora, è possibile che i calcoli dei tecnici governativi fossero sovrastimati, anche perchè, in caso contrario, saremmo di fronte a un prelievo di entità abnorme e a una vera e propria stangata posta a carico di un ristretto gruppo di imprese, atteso che i 10,5 miliardi di euro preventivati ammontano a circa un terzo dell’intero gettito Ires!

Si può tuttavia ipotizzare che, al netto di eventuali sovrastime nel calcolo del gettito atteso, le minori entrate registrate siano effettivamente da ascriversi, per una parte più o meno significativa, a una deliberata sottrazione agli obblighi di versamento.

Se così fosse, non credo che questo comportamento possa essere biasimato, anzi appare tendenzialmente il più razionale e cautelativo per le ragioni delle imprese interessate dal prelievo.

In primo luogo, non va dimenticato che, come molti hanno notato (anche in questo blog), la norma che ha introdotto l’imposta sui c.d. “extraprofitti”  realizzati dalle aziende energetiche non è affatto in grado di individuarli nemmeno per larghe approssimazioni, e dunque, per questa ed altre ragioni, presenta numerosi profili di incostituzionalità. In una situazione del genere, è ben possibile che i soggetti colpiti dal prelievo abbiano preferito non versare il tributo (fermo restando che lo stesso potrebbe essere regolarmente “dichiarato” come dovuto a consuntivo, con la dichiarazione Iva da presentare nel 2023), e quindi attendere la cartella di pagamento con l’intento di impugnarla davanti ai giudici tributari e in quella sede sollevare l’eccezione di incostituzionalità del tributo e chiedere nel contempo di  sospenderne la riscossione. Il mancato versamento dell’imposta da parte delle imprese obbligate potrebbe cioè essere il semplice riflesso dell’insensibilità dimostrata dal Governo e dal Parlamento nei confronti delle tante criticità e dei dubbi di costituzionalità della norma, che sono stati del tutto ignorati e semmai aggravati a seguito dell’aumento dell’aliquota del prelievo (dal 10 al 25 per cento) ad opera del D.L. 50/2022.

In secondo luogo, non può essere trascurata l’influenza che può aver esercitato la sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2015, in cui i giudici, dopo aver rilevato l’incostituzionalità dell’addizionale Ires sulle aziende energetiche nota come “Robin Hood Tax”, sancirono inopinatamente, del tutto a sorpresa, la irretroattività degli effetti della sentenza e la sua valenza solo per il futuro, rendendo definitive e non rimborsabili le imposte già versate. Si pose a quel punto la questione di quale fosse la sorte delle imposte non versate in relazione agli anni di imposta anteriori al 2015: anche se l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto di poterle richiedere attraverso atti di accertamento, diverse commissioni tributarie hanno negato tale possibilità, giacché non può essere accertata un’imposta ormai sfornita di base legislativa, per essere stata la norma istitutiva dichiarata incostituzionale (come si legge in qualche sentenza, non si può chiedere ai giudici tributari di “resuscitare un morto”).

In questo scenario, è evidente che per un’impresa il comportamento più prudente e attento ai diritti dei suoi azionisti potrebbe essere proprio quello di non versare l’imposta, confidando in una pronuncia di incostituzionalità della legge istitutiva del prelievo e ponendosi al tempo stesso al riparo dal rischio di una riedizione della sentenza sulla “Robin Tax”, cioè di una pronuncia di incostituzionalità priva di effetti sul piano della rimborsabilità del tributo. Un monstrum giuridico, qual è la sentenza n. 10/2015, non poteva che produrre frutti avvelenati.

Alla luce di ciò la mirata stretta sulle sanzioni che si va profilando, con accorciamento dei tempi per il ravvedimento operoso (versamento tardivo) e la riduzione dell’abbattimento sanzionatorio ottenibile, potrebbe non sortire alcun effetto e prestarsi a sua volta a censure di compatibilità ordinamentale.

Sul piano effettuale, non si vede perché un’impresa che ha scelto come strategia di non versare l’imposta, onde attendere l’atto della riscossione e impugnarlo per sollevare la questione di costituzionalità della norma, dovrebbe poi versare l’imposta in sede di ravvedimento operoso. Avrebbe al più senso farlo laddove il mancato versamento non risponda a una strategia deliberata ma ad altri fattori, come una (temporanea) crisi di liquidità: l’inasprimento sanzionatorio rischierebbe così di colpire dei soggetti posti in difficoltà dal gravoso onere finanziario di un prelievo inaspettato, il che non mi pare un obiettivo commendevole.

Sul piano ordinamentale, un intervento in senso peggiorativo, con carattere selettivo, sui meccanismi del ravvedimento operoso, modificherebbe in peius il quadro sanzionatorio con riferimento a violazioni già commesse, ponendosi così in contrasto sia con il principio di irretroattività delle sanzioni, che trova copertura costituzionale, sia con il principio di uguaglianza e quello di proporzionalità cui le norme sanzionatorie devono conformarsi: perché mai proprio la violazione degli obblighi di versamento connessi all’imposta straordinaria sugli extraprofitti dovrebbe essere sanzionata più pesantemente rispetto ad altre omologhe violazioni, dato che non vi è alcun elemento di particolare disvalore (ad esempio, la presenza di frodi) nei mancati versamenti relativi alla fattispecie in esame?

Gli interventi annunciati da un Governo al crepuscolo sembrano insomma più una reazione indispettita e collerica a un inaspettato “buco” nel gettito che una risposta razionale a un problema che dipende anzitutto dall’aver escogitato una fonte di entrate sorretta da meccanismi approssimativi e irrispettosi delle regole costituzionali sulla tassazione, prima di tutto gli artt. 3 e 53 Cost.. Non basta certo la denominazione di “contributo straordinario” attribuita al prelievo, come pure qualche sottosegretario ha pubblicamente affermato, a mutarne la natura giuridica: è fuori discussione che si tratti di un’imposta, e non è affatto detto la sua “straordinarietà” riuscirà a convincere i giudici costituzionali della sua conformità a Costituzione.


domenica 20 marzo 2022

Ancora un’imposta sugli extraprofitti di dubbia costituzionalità: basterà la sua temporaneità a salvarla?

Le imposte sugli “extraprofitti” pongono diversi problemi, sia di ordine teorico-generale che di carattere più tecnico, legato alla loro progettazione normativa. Quest’ultima influenza a sua volta il grado di compatibilità ordinamentale di tali misure, potendo anche decretarne l’insuccesso e la dichiarazione di incostituzionalità.


Tra le questioni di ordine generale sollevate da misure di finanza straordinaria di questo tipo vi è il loro carattere solitamente selettivo e settoriale: come dimostrano la Robin Hood Tax del 2008 e il "contributo straordinario contro il caro bollette” previsto all’art. 37 della bozza di decreto legge approvato il 17 marzo 2022, questi prelievi riguardano soltanto le imprese operanti nel settore dell’energia, della produzione e commercio di gas, elettricità e prodotti petroliferi, lasciando indenni tutte le altre, che pure hanno o possono aver realizzato extraprofitti in tempi assai recenti (penso ad esempio ai risultati prodotti dalle imprese della GDO e dai supermercati durante il lock-down, che hanno tratto vantaggio dalle modifiche forzate alle abitudini di consumo dovute alla pandemia). 

 

Certo la scelta di quali extraprofitti tassare è entro certi limiti una decisione politica discrezionale, difficilmente sindacabile a meno che non emergano profili di irragionevolezza nella disciplina normativa. Va però comunque dimostrata la maggiore capacità di contribuire delle imprese nei cui confronti il prelievo viene inasprito, argomentando e dimostrando adeguatamente non solo il conseguimento di maggiori profitti rispetto a una misura ritenuta “ordinaria”, ma altresì il carattere immeritato di tali guadagni, che devono essere riconducibili a situazioni eccezionali di carattere esogeno che non riflettono il merito o il rischio imprenditoriale, traducendosi in una sorta di windfall gains (guadagni di congiuntura dovuti a eventi bellici, fenomeni inflattivi, etc.). 

 

Altrimenti, si finirebbe per colpire in modo punitivo il merito imprenditoriale e le attività economiche che hanno avuto il “torto” di sovraperformare il proprio mercato di riferimento. Il punto è che l’imposta sugli utili  societari, avendo aliquota proporzionale, già è in grado di tassare maggiormente le imprese con utili più elevati; se li si vuole tassare ancora di più, al limite con aliquote progressive, con addizionali o in altre forme, occorre fornire una base giustificativa dell’aggravio di tassazione, quando questo viene posto a carico di una sola categoria di imprese. Occorre in altri termini giustificare razionalmente la “discriminazione qualitativa” a carico di una certa categoria di redditi o dei redditi conseguiti da una categoria di soggetti. Come chiarito anche dalla Corte Costituzionale, "non ogni modulazione del sistema impositivo per settori produttivi costituisce violazione del principio di capacità contributiva e del principio di eguaglianza. Tuttavia, ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione” (sentenza n. 10/2015).

 

Un secondo aspetto da considerare nell’introdurre prelievi straordinari sugli extraprofitti è la scelta del parametro temporale di riferimento per misurare il guadagno differenziale oggetto di tassazione. Un criterio potrebbe essere quello di misurare il profitto extra rispetto a quello che veniva in media conseguito prima del verificarsi dell’evento (rialzo dei prezzi della materia prima, scoppio della guerra, etc.) costituente la “causa” del sovraprofitto. Ma in tal caso occorre che il termine temporale di paragone sia effettivamente un periodo “normale”, poiché altrimenti il calcolo verrebbe falsato e l’extra-profitto si rivelerebbe una illusione ottica (come vedremo tra un attimo il “contributo straordinario contro il caro bollette” palesa proprio questa criticità). 

 

Un terzo profilo da evidenziare è che misure di questo tipo hanno quasi per definizione una impronta sostanzialmente (se non sempre anche formalmente) retroattiva, intervengono cioè dopo che si è verificato l’evento che ha prodotto gli extra-profitti. Pur trattandosi indubbiamente di misure fiscali (prelievi collegati a indici economicamente rilevanti, finalizzati a reperire gettito da impiegare nella spesa pubblica), le excess profits taxes mirano anche a ripristinare una sorta di equità e giustizia sociale, togliendo una parte dei guadagni immeritati alle imprese che li hanno conseguiti, e utilizzando il gettito in chiave redistributiva, a favore delle fasce sociali più deboli o di altre imprese colpite in senso sfavorevole dalla congiuntura (anche se l’esperienza passata insegna che tale “redistribuzione” mirata non sempre ha avuto luogo). Il carattere selettivo di queste misure, unito al fatto che intervengono a posteriori, modificando ora per allora il regime fiscale degli utili già conseguiti dalle imprese destinatarie del prelievo, induce a prestare molta attenzione nella loro progettazione giuridica.

 

Un quarto punto che merita di essere segnalato è poi la coerenza che deve sussistere tra gli obiettivi del legislatore (tassare i sovraprofitti rispetto a quelli ordinari, dovuti a ragioni congiunturali) e la progettazione del prelievo, che deve essere coerente rispetto a quegli obiettivi. Nelle parole dei giudici costituzionali, se è legittimo lo scopo di istituire un prelievo differenziato che colpisca gli eventuali “sovra-profitti” congiunturali, anche di origine speculativa, del settore energetico e petrolifero, occorre però "verificare se i mezzi approntati siano idonei e necessari a conseguirlo. Infatti, affinché il sacrificio recato ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva non sia sproporzionato e la differenziazione dell’imposta non degradi in arbitraria discriminazione, la sua struttura deve coerentemente raccordarsi con la relativa ratio giustificatrice. Se, come nel caso in esame, il presupposto economico che il legislatore intende colpire è la eccezionale redditività dell’attività svolta in un settore che presenta caratteristiche privilegiate in un dato momento congiunturale, tale circostanza dovrebbe necessariamente riflettersi sulla struttura dell’imposizione (sentenza n. 10/2015).


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Veniamo ora alla nuova imposta sugli extraprofitti del settore oil, gas and energy introdotta l’altro giorno dal Governo. Diversi sono gli elementi di criticità, segnatamente:

 

1) si tratta, a differenza della Robin Hood Tax, non già di una addizionale o maggiorazione dell’aliquota Ires, bensì di un nuovo tributo dal carattere ibrido, sul “valore aggiunto”, istituito con decreto legge. Viene dunque violato l’art. 4 dello Statuto dei diritti del contribuente, secondo cui “non si può disporre con decreto-legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti”. È appena il caso di ricordare che le norme dello Statuto costituiscono princìpi generali dell'ordinamento tributario derogabili o modificabili solo espressamente e mai da leggi speciali (art. 1), mentre l’art. 37 della bozza di decreto-legge del 17 marzo 2022 introduce una deroga implicita o tacita al divieto di istituire nuovi tributi per decreto-legge, e certo non può essere considerato una “legge generale”;

 

2) il nuovo “contributo straordinario contro il caro bollette” ha una base imponibile prodottasi quasi interamente nel passato (la differenza tra il saldo del valore aggiunto Iva conseguito nel semestre 1° ottobre 2021-31 marzo 2022, rispetto a quello conseguito nel semestre 1° ottobre 2020-31 marzo 2021), dunque si pone sostanzialmente in deroga, anche stavolta tacita e non espressa, con il principio di irretroattività sancito dall’art. 3 dello Statuto dei diritti del contribuente (“le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”); si noti peraltro che anche la Commissione Europea, nel suggerire agli Stati membri di prendere in considerazione l’introduzione di misure fiscali di carattere temporaneo sui proventi straordinari delle imprese operanti nei settori dell’energia, raccomanda che tali misure non abbiano carattere retroattivo (Comunicazione della Commissione REPowerEU dell’8 marzo 2022);

 

3) la base imponibile della nuova imposta straordinaria settoriale è costituita dall’incremento del saldo tra le operazioni attive e le operazioni passive, rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, riferito al semestre 1° ottobre 2021-31 marzo 2022, rispetto al saldo conseguito nel semestre 1° ottobre 2020-31 marzo 2021. In entrambi i casi i saldi vanno calcolati al netto dell’Iva, e vengono ricavati dalle comunicazioni dei dati delle liquidazioni periodiche Iva. Si tratta dunque di una imposta che non ha quale base imponibile il reddito o l’utile d’impresa, e nemmeno l’eccedenza dell’utile o reddito conseguito in un periodo rispetto a quello conseguito in un periodo precedente (ovvero l’extraprofitto). Al contrario, si tratta di una imposta su un aggregato lordo, cioè sull’eccedenza di "valore aggiunto” conseguito ai fini Iva in un semestre rispetto a quello conseguito nel corrispondente semestre dell’anno precedente. Anche se il presupposto della nuova imposta presenta alcune assonanze con l’Iva (la base imponibile è proporzionale al “valore aggiunto”, o meglio alla sua eccedenza semestre su semestre; si applicano per l’accertamento, la riscossione e tutti gli aspetti procedimentali del tributo le norme sull’Iva), è verosimilmente scongiurata una violazione dell’art. 401 della Direttiva Iva sul divieto di istituire (altre) imposte sulla cifra d’affari, alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia che richiede, a tal fine, elementi che sono invece assenti nella struttura dell’imposta. La stessa non è infatti generale ma settoriale, inoltre non prevede la rivalsa dunque non è programmaticamente destinata ad incidere il consumo finale (anzi questo è una eventualità che la norma intende scongiurare attraverso un monitoraggio dei prezzi di acquisto e di vendita, pur senza prevedere un divieto di traslazione sui consumatori finali come quello che era stato previsto - benché poi rimasto solo sulla carta - dalla norma istitutiva della Robin Hood Tax).

La maggiore criticità afferente la “base imponibile” del contributo straordinario attiene piuttosto alla verifica del profilo di coerenza tra gli obiettivi e scopi del prelievo straordinario (come ha dichiarato il Presidente del Consiglio Mario Draghi, “Tassiamo una parte degli straordinari profitti che i produttori stanno facendo grazie all’aumento dei costi delle materie prime e distribuiamo questo denaro a imprese e famiglie in difficoltà”), e la struttura dell’imposta, che deve essere coerente rispetto alla sua ratio giustificatrice. Sotto questo particolare aspetto mi sembra che la disposizione rischi seriamente di essere censurata - e dichiarata incostituzionale - per violazione degli artt. 3 e 53 Cost. L’incremento nel valore aggiunto è un indicatore troppo grossolano, se da esso si vuole inferire il conseguimento di extraprofitti: lo stesso può infatti dipendere da una molteplicità di fattori, quali un incremento del volume di attività dell’impresa, a parità di margini unitari; può inoltre dipendere dall’effettuazione di operazioni di aggregazione o disaggregazione (fusioni, conferimenti, scissioni) che possono rendere non significativo il confronto intertemporale su cui è incentrato il calcolo della base imponibile; può ancora essere dovuto al fatto che il saldo tra “valori aggiunti” riferiti a periodi diversi è appunto un aggregato lordo, che non tiene conto di costi estranei al novero delle operazioni attive e passive rilevanti per l’Iva, come le spese per il personale dipendente, gli ammortamenti, i deprezzamenti, le svalutazioni, le rettifiche di valore e altro ancora. Tutte queste componenti reddituali influiscono sull’utile d’impresa, ma la base imponibile del contributo straordinario non ne tiene conto in alcun modo, fino al paradosso di applicarsi anche in presenza di perdite d’impresa o di margini di profitto del tutto “normali”. Insomma, anche se si potrebbe sostenere che l’incremento intervenuto nel “valore aggiunto" ai fini Iva può essere un elemento da cui inferire la produzione di profitti non “ordinari”, tale legame inferenziale appare troppo debole e contraddetto in una lunga serie di ipotesi, tanto da rendere la scelta della base imponibile non coerente rispetto agli obiettivi dell’imposta e alla sua ratio giustificatrice. Una misura come quella in esame dovrebbe essere incentrata, come raccomandato dalla Commissione Europea nel documento su citato, su un attento monitoraggio dell’andamento dei prezzi della materia prima; al contrario, il prelievo straordinario concepito dal Governo italiano non discerne in alcun modo gli aumenti dei margini lordi dovuti alla variazione dei prezzi rispetto a quelli dovuti a una variazione dei volumi di vendita e/o dell’acquisizione di nuove quote di mercato (magari dovute a una politica concorrenziale dei prezzi di vendita!), non tenendo in alcun modo conto dell’andamento della domanda globale dei prodotti energetici, che era molto bassa durante le fasi più acute della pandemia e si è innalzata successivamente per effetto della ripresa economica. In questo modo si finiscono per qualificare come sovraprofitti e windfall gains anche incrementi dei margini spiegabili in modo diverso, in specie con l’aumento delle quantità acquistate e vendute;

 

4) quest'ultimo aspetto è poi aggravato dalla scelta dei termini temporali di riferimento. Come anche altri hanno notato, il periodo di profittabilità  preso a riferimento come base di partenza per calcolare l’incremento di valore aggiunto non era affatto un periodo “normale”, poiché influenzato dalle restrizioni e limitazioni connessi alla pandemia. Basti considerare, a tal riguardo, che il prezzo del petrolio a inizio ottobre 2020 era di circa 40 dollari, mentre un anno prima (ottobre 2019) si aggirava sui 60 dollari. Il rischio insito nella scelta del periodo preso a riferimento dal Governo per il calcolo degli extraprofitti presunti, dunque, è di confrontare il semestre che si chiuderà al 31 marzo 2022 con un semestre (quello compreso tra il 1° ottobre 2020 e il 31 marzo 2021) che risentiva della depressione causata dalla pandemia, rendendo ancor più discutibile e irrazionale il meccanismo di individuazione dell’asserito “extra-profitto”. Insomma, il meccanismo prescelto dal Governo per il calcolo dell’extraprofitto viene fondato su un calcolo di tipo differenziale, dove è assunto per definizione come “sovraprofitto” tassabile l’eccedenza di valore aggiunto rispetto a quella conseguita in un periodo precedente, ed è tale scelta che il Governo dovrebbe giustificare - se ci riesce - razionalmente;

 

5) anche la selezione dei soggetti passivi cui applicare il nuovo “contributo straordinario” appare problematica: non vi è infatti alcuna distinzione all’interno delle filiere e delle diverse concrete possibilità di sfruttare l’aumento del costo delle materie prime, e vengono ad esempio messi sullo stesso piano i produttori e i commercianti di prodotti petroliferi; eppure è noto che per gli impianti di distribuzione l’aumento del costo delle materie prime rappresenta appunto soltanto un costo, e non una occasione di lucro: si potrebbe a tal proposito obiettare che, allora, non vi saranno “eccedenze” da tassare, ma in realtà si è visto sopra che il meccanismo di calcolo della base imponibile può produrre effetti imprevedibili e colpire situazioni in cui - pur essendovi un saldo positivo nel confronto tra valori aggiunti riferiti ai periodi in questione - è del tutto assente qualsivoglia sovraprofitto;

 

6) l’art. 37 della bozza di decreto legge prevede che “il contributo non è deducibile ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive”. Tuttavia, per come è stato concepito il contributo straordinario - per cui non è prevista alcuna rivalsa - esso rappresenta un costo di produzione certamente inerente all’attività esercitata, direttamente connesso alll’eccedenza di valore aggiunto prodotta nel periodo di riferimento. L’indeducibilità dunque confligge con il principio di tassazione del reddito di impresa al netto dei costi, e con gli gli artt. 3 e 53 Cost., come recentemente interpretati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 262/2020, riguardante l’indeducibilità dell’IMU dall’IRES. Secondo i giudici costituzionali, dal principio di inerenza "il legislatore non può arbitrariamente prescindere: questo infatti costituisce il presidio della verifica della ragionevolezza delle deroghe rispetto all’individuazione di quel reddito netto complessivo che il legislatore stesso ha assunto a presupposto dell’IRES. Tale principio si riflette anche sui costi fiscali. Va precisato, infatti, che in relazione agli oneri fiscali l’art. 99, comma 1, del TUIR (rubricato «Oneri fiscali e contributivi») sancisce in via generale il principio della deducibilità delle imposte dal reddito, stabilendo che «[l]e imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Le altre imposte sono deducibili nell’esercizio in cui avviene il pagamento». Tale disciplina prevede espressamente dunque solo due esclusioni dalla regola della deducibilità, del tutto ragionevoli e confermative del principio di tassazione al netto: a) una attiene alle imposte per le quali è prevista la rivalsa (il cui peso non è sopportato dall’impresa, onde la logicità della mancata deduzione del relativo onere); b) l’altra riguarda le imposte sui redditi (che, in quanto derivanti dal reddito, non possono logicamente rientrare tra gli antecedenti causali di questo). Quanto alle «altre imposte», il richiamato art. 99 TUIR, come detto, ne stabilisce la deducibilità, affermando un criterio sì derogabile dal legislatore, ma non quando vengano in considerazione fattispecie come quella in esame, relative a un tributo (non commisurato al reddito e né oggetto di rivalsa) direttamente e pienamente inerente alla produzione del reddito. Un tributo così caratterizzato costituisce, infatti, un costo fiscale inerente di cui non si può precludere, senza compromettere la coerenza del disegno impositivo, la deducibilità una volta che il legislatore abbia, nella propria discrezionalità, stabilito per il reddito d’impresa il criterio di tassazione al netto”.

Mi sembra che questi principi siano senza problemi estensibili al “contributo straordinario contro il caro bollette”: l’imposta introdotta non è un’imposta sul reddito né un’imposta per cui è prevista la rivalsa; al contempo, la stessa appare non solo inerente all’attività di impresa, ma addirittura “strettamente" inerente alla produzione del valore aggiunto tassabile e, di riflesso, del reddito di impresa. Anche sotto questo profilo la nuova imposta appare in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione. 

 

Tutto quanto precede lascia presagire un percorso accidentato per il prelievo “ibrido” in questione, sull'incremento di un aggregato lordo non indicativo - se non in termini davvero troppo grossolani - della ricchezza prodotta dall’impresa, e men che meno di un extraprofitto, che appare sotto diversi aspetti censurabile sul piano del rispetto dei principi costituzionali della tassazione nonché di quelli sanciti dallo Statuto del contribuente. Forse una prospettiva per salvare il prelievo straordinario dalle più gravi censure di costituzionalità sopra prospettate potrebbe fondarsi sulla sua natura eccezionale e temporanea, profili cui la Corte Costituzionale ha talvolta attribuito rilevanza proprio nell’ottica di un “salvataggio", ma non si può oggi dire se ciò sarà sufficiente: come recentemente precisato proprio dai giudici costituzionali, "di per sé... la temporaneità dell’imposizione non costituisce un argomento sufficiente a fornire giustificazione a un’imposta, che potrebbe comunque risultare disarticolata dai principi costituzionali” (sentenza nn. 288/2019; 262/2020).