Nella riforma fiscale annunciata da Trump, con riduzione della corporation tax dal 35 al 15 per cento, e riduzione degli scaglioni a tre (con aliquote del 10, 25 e 35 per cento, senza che però si conoscano le soglie imponibili), colpisce l’estensione della nuova aliquota prevista per i redditi delle società di capitali (15 per cento) a tutti i redditi di impresa, compresi quelli di imprese individuali, società di persone, e in genere di soggetti self-employed.
La convivenza di un’imposta proporzionale sugli utili societari prodotti da società di capitali, e di aliquote progressive sui redditi degli individui, pone ogni legislatore davanti a un dilemma, e ad esigenze confliggenti: da un lato occorre garantire, almeno in teoria, parità di trattamento a tutti i redditi assoggettati ad aliquote progressive, il che impone di applicare ai redditi di impresa individuale o lavoro autonomo le stesse aliquote che si applicano a quelli di lavoro dipendente (prescindiamo qui dalle ragioni che militano a favore dell’applicabilità di imposte sostitutive sui redditi di capitale).
Dall’altro, esigenze di neutralità dell’imposta rispetto alla forma giuridica di esercizio dell’impresa imporrebbero un allineamento dell’aliquota prevista per le legal entities a quelle applicabili a tutti i business income, cioè ai redditi d’impresa o lavoro autonomo percepiti individualmente o attraverso strutture intermedie fiscalmente trasparenti (come le nostre società di persone o le partnerships di altri Paesi).
Nell’ordinamento italiano questi obiettivi, per certi aspetti contrapposti, sono stati da ultimo oggetto di una sintesi attraverso la cosiddetta “Imposta sul Reddito Imprenditoriale” (IRI): è infatti data la facoltà a imprese individuali e società di persone (ma non ad artisti e professionisti) di applicare agli utili, su opzione, l’aliquota Ires (24%), con conseguente parità di tassazione di tutti i redditi di impresa, indipendentemente dalla forma giuridica utilizzata per l'attività.
Per garantire l’obiettivo di progressività dell’imposizione dei redditi personali, e non introdurre ingiustificate corsie preferenziali per i redditi dei self-employed (rispetto a quelli dei lavoratori dipendenti), il nostro ordinamento contempla tuttavia un secondo livello di imposizione, all’atto del “prelievo” degli utili dai conti dell’impresa, con destinazione degli stessi alla sfera del consumo del titolare. Insomma, fino a che gli utili non vengono prelevati e restano nel circuito imprenditoriale, gli stessi pagano l’imposta proporzionale al 24%. Al momento del prelievo, pagheranno le aliquote progressive, con scomputo dell’imposta proporzionale già pagata.
Questo meccanismo implica complicazioni e pone comunque dei rischi di elusione, legati all’eventualità di un utilizzo degli utili dell’impresa per acquisti e atti di consumo non inerenti all’impresa, effettuati nell’interesse “personale” dell’imprenditore o dei soci, al di fuori di un atto di vero e proprio “prelievo”. Vedremo se e come la nostra Amministrazione saprà fronteggiare questo rischio.
La riforma tributaria americana annunciata nelle sue grandi linee non sembra invece contemplare, a questo riguardo, alcun correttivo: l’imposta del 15 per cento sui business income di individui self-employed pare cioè assumere carattere definitivo, e così del resto la stessa viene letta da attenti commentatori.
Se così fosse, si darebbe vita a una gigantesca distorsione, non so come giustificabile sul piano della razionalità e della parità di trattamento di situazioni che denotano una identica ability to pay. Un professionista o un imprenditore con redditi molto elevati potrebbe infatti pagare sugli stessi un’imposta molto più bassa di quella che pagherebbe un lavoratore dipendente in possesso di redditi medio-bassi.
Inoltre, vi sarebbe la corsa al più classico degli arbitraggi, ovvero alla “trasformazione” di redditi di lavoro dipendente in business income.
Lo scenario appare talmente irrealistico da porre una seria ipoteca sulla credibilità dell’intera riforma, almeno per come la stessa è stata presentata.