La recente sentenza della Corte Costituzionale 16 dicembre 2016 n. 275 è stata da molti accolta con giubilo, come riaffermazione di diritti fondamentali (allo studio, alla salute, etc.) da garantire a qualunque costo, non già subordinatamente alle disponibilità finanziarie dello Stato, e all’equilibrio del bilancio.
Un’opinione pubblica sempre più propensa a credere alle virtù taumaturgiche della spesa in deficit e all’inesistenza di limiti razionali all’espansione del debito pubblico spiega l’emergere di rivendicazioni “ sovraniste” (in primis con riguardo alla moneta) e l’insofferenza nei confronti di politiche di controllo della spesa: da qui appunto il favorevole accoglimento della sentenza n. 275/2016, di cui si è da molti enfatizzato un passaggio (“...la pretesa violazione dell’art. 81 Cost. è frutto di una visione non corretta del concetto di equilibrio del bilancio... È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione”), senza tuttavia averne compreso il senso complessivo.
Dalla lettura della sentenza non traspare affatto una svalutazione del principio di equilibrio del bilancio, appartenente alla tavola dei valori costituzionali che non sfuggono al sindacato costituzionale; piuttosto, emerge lo scrutinio della Corte sulla razionalità dei criteri di formazione del bilancio pubblico, e sull’allocazione di risorse limitate per soddisfare diritti di diversa gradazione e importanza costituzionale.
La Corte si è infatti pronunciata su una disposizione normativa che subordinava l’impegno assunto da una regione di finanziare il 50% delle spese di trasporto di soggetti disabili onde garantire agli stessi il diritto allo studio, alla presenza di disponibilità finanziarie nel proprio bilancio. Una tale sostenibilità finanziaria non aveva tuttavia possibilità di essere concretamente verificata, nell’ambito di stanziamenti di bilancio complessivi e utilizzati promiscuamente (“...Se ciò può essere consentito in relazione a spese correnti di natura facoltativa, diverso è il caso di servizi che influiscono direttamente sulla condizione giuridica del disabile aspirante alla frequenza e al sostegno nella scuola… In tal modo viene reso generico ed indefinito il finanziamento destinato a servizi afferenti a diritti meritevoli di particolare tutela, rendendo possibile... che le risorse disponibili siano destinate a spese facoltative piuttosto che a garantire l’attuazione di tali diritti… l’indeterminatezza del finanziamento determina un vulnus all’effettività del servizio di assistenza e trasporto, come conformato dal legislatore regionale, con conseguente violazione dell’art. 38, terzo e quarto comma, Cost.”).
La Corte ha cioè ritenuto la contraddittorietà della norma impugnata nella parte in cui la stessa, dopo aver quantificato l’impegno della regione per la tutela dei diritti delle persone disabili, consentiva di vanificarlo subordinando in concreto il finanziamento alle restanti scelte politiche di gestione ordinaria dell’ente.
E’ evidente che la Corte non poteva accogliere l’obiezione della regione interessata, che opponeva il principio dell’equilibrio del bilancio per giustificare la norma denunciata: questo principio, infatti, se così inteso consentirebbe di eludere qualsivoglia impegno finanziario dello Stato, ancorché già assunto e frutto di programmazione. Ma da ciò non deriva una svalutazione del principio medesimo, quanto l’importante riaffermazione di un sindacato costituzionale sulle scelte legislative di spesa, nella misura in cui queste appaiano irrazionali, irragionevoli, contraddittorie, etc. Se è certamente appannaggio del decisore politico e degli organi legislativi stabilire le priorità nell'allocazione delle risorse, queste scelte devono comunque essere giustificabili razionalmente, e sindacabili attraverso una verifica del corretto uso della discrezionalità nella ponderazione dei diversi interessi ed esigenze sottesi al bilancio pubblico.
E non risponde a questi canoni di ragionevolezza una disposizione che, dopo aver sancito l’impegno finanziario a coprire una certa quota delle spese necessarie a garantire dei diritti fondamentali, lo eluda subordinandolo alla presenza di risorse finanziarie che potrebbero non sussistere soltanto perché impiegate per altri capitoli di spesa non parimenti connessi a diritti fondamentali (“...Nel caso in esame, il rapporto di causalità tra allocazione di bilancio e pregiudizio per la fruizione di diritti incomprimibili avviene attraverso la combinazione tra la norma impugnata e la genericità della posta finanziaria del bilancio di previsione, nella quale convivono in modo indifferenziato diverse tipologie di oneri, la cui copertura è rimessa al mero arbitrio del compilatore del bilancio e delle autorizzazioni in corso d’anno”).
La sentenza n. 275, più che indicare il carattere recessivo dell’art. 81 sull’equilibrio dei conti, prescrive insomma una elementare regola di razionalità nella formazione dei bilanci pubblici e delle scelte di spesa, da graduare secondo ordini di priorità ragionevoli e controllabili dall’esterno, in un contesto che resta di ineliminabile scarsità delle risorse (“...condizionare il finanziamento del 50% delle spese già quantificate… a generiche ed indefinite previsioni di bilancio realizza una situazione di aleatorietà ed incertezza, dipendente da scelte finanziarie che la Regione può svolgere con semplici operazioni numeriche, senza alcun onere di motivazione in ordine alla scala di valori che con le risorse del bilancio stesso si intende sorreggere”).
Sotto questo profilo si tratta di una pronuncia che denota maggiore consapevolezza ed equilibrio rispetto a quelli dimostrati dalla Corte in altre occasioni, come quando la stessa ha conculcato il diritto dei privati a una giusta imposizione, negando la restituzione di imposte percepite illegittimamente sul rilievo che in tal modo si sarebbe alterato il pareggio del bilancio (sentenza n. 10 del 2015): è evidente, al contrario, che se determinati diritti fondamentali vanno garantiti, l’equilibrio del bilancio dovrà essere raggiunto secondo altre modalità (ad esempio evitando spese meno necessarie, o deliberando nuove imposte), non già negando quei diritti.
Riflessioni e commenti su tassazione, politiche fiscali ed economia pubblica. A volte anche su altri temi di attualità
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sabato 24 dicembre 2016
lunedì 19 dicembre 2016
Sull’evasione fiscale stiamo sempre al “bar dello sport"
Non so se i giornalisti italiani abbiano un problema a distinguere tra “reddito” e “capitale”, tra flussi e fondi: certo è che Eugenio Scalfari ha recentemente proposto un tributo “patrimoniale” sui redditi elevati (peraltro dall’importo abnorme e irrealizzabile), mentre il Corriere ha ieri pubblicato un articolo di Federico Fubini in cui l’autore azzarda una mappatura dell’evasione nelle Regioni italiane mettendo a confronto il numero delle "auto di lusso”, dal costo almeno pari a 100 mila euro, con quello delle dichiarazioni Irpef di poco superiori a tale soglia, concludendo che, nelle Regioni in cui si supera il rapporto di 1:1, lì si nasconderebbe anche l’evasione di massa “fra gli italiani più benestanti".
Peccato che un confronto del genere abbia assai poco senso, per una lunga serie di ragioni: anzitutto, se esiste certamente una qualche relazione tendenziale tra (ammontare dei) redditi correnti e patrimoni posseduti, non si può certo confrontare, in modo tanto grossolano, una determinata categoria di cespiti patrimoniali aventi un certo valore (le autovetture), con i redditi dichiarati.
Il patrimonio (in questo caso la parte investita nell’acquisto di autovetture) dipende infatti da molteplici fattori, nel cui ambito è difficile sceverare la quota attribuibile a redditi evasi. Può infatti trattarsi di beni acquistati attingendo a disponibilità patrimoniali preesistenti, a smobilizzi patrimoniali, a eredità e donazioni, a prestiti e finanziamenti contratti per l’acquisto del bene (si pensi ai leasing sulle autovetture). E i differenziali tra Regioni possono dipendere quindi dalla diversa mappatura dei patrimoni preesistenti (anziché dei redditi), nonché da una diversa propensione verso l’acquisto di determinati beni durevoli di consumo.
Un secondo ordine di ragioni attiene al carattere sottoinclusivo delle dichiarazioni Irpef, in cui, del tutto legalmente, non figurano moltissimi redditi da capitale (interessi, dividendi e plusvalenze su partecipazioni non qualificate, etc.), i redditi effettivi determinati catastalmente, le cedolari secche immobiliari, e così via.
E ancora, anche nelle norme sull’accertamento tributario è stata recepita la regola di comune esperienza secondo cui un certo incremento patrimoniale (come quello per l’acquisto dell’autovettura) si considera in prima battuta finanziato - salva prova contraria da parte del contribuente - con redditi prodotti lungo un arco pluriennale: la previgente norma sull’accertamento sintetico, in base alla spesa (art. 38 Dpr 600/1973), presumeva ad esempio che l’incremento patrimoniale si fosse formato con i redditi degli ultimi cinque anni. Applicando questa regola, sancita per agevolare gli Uffici finanziari nella spalmatura a ritroso delle spese per incrementi patrimoniali, Fubini avrebbe dovuto considerare il numero di dichiarazioni superiori a 20, non già a 120 mila euro, e si sarebbe subito accorto del vicolo cieco in cui conduce la sua inchiesta.
Non resta invece che aspettarsi, a questo punto, un futuro scoop giornalistico, in cui saranno messi a confronto i valori medi delle abitazioni di cui gli italiani sono proprietari, con i redditi dagli stessi dichiarati, per concludere, finalmente, che “siamo tutti evasori”.
domenica 11 dicembre 2016
Taxing the Rich
Il recente libro di Scheve e Stasavage, Taxing the Rich. A History of Fiscal Fairness in the United States and Europe, contiene una interessante indagine storico-comparatistica, ricca di dati e riferimenti empirici, degli argomenti utilizzati nel corso degli ultimi 150 anni per giustificare l’introduzione di elevate aliquote di imposta su titolari di redditi elevati (i top incomes) o sui patrimoni di valore più consistente.
Da quest’analisi emerge che gli argomenti pro o contro l’introduzione di elevate aliquote sui più “ricchi” tendono a ripetersi in modo piuttosto stereotipato: i sostenitori di una tassazione fortemente progressiva sui redditi elevati la fondano sull’ability to pay e il “sacrificio” provocato dall’imposta (in ipotesi minore per gli individui ad alto reddito), nonché su una esigenza di equità, anche se occorrerebbe spiegare sotto quale profilo è equo tassare pesantamente i “ricchi”, con elevate aliquote progressive, rispetto a tutti gli altri contribuenti, e se con ciò si intende correggere i privilegi garantiti ai primi dall’azione governativa, da imperfetti meccanismi di funzionamento del mercato, o dalla esistenza in natura di differenze tra gli individui, in termini di capacità, talenti, o anche dovute alla pura sorte.
I detrattori di una progressività troppo spinta hanno invece sovente richiamato principi di efficienza dell’imposta (cioè, in breve, il rischio che aliquote elevate inneschino l’effetto sostituzione: se sul reddito marginale vengo tassato con aliquote molto elevate, potrei decidere di non lavorare) e il carattere “meritato” degli elevati guadagni, che il loro titolare ha prodotto ed ha il diritto di godersi. Quest’ultima argomentazione sottende una sorta di controlimite che, da un certo punto in poi, si contrappone all’incidenza del prelievo fiscale, come dimostrano i tentativi di costruire una teoria costituzionale dei limiti massimi all’imposizione fondandola sui diritti di proprietà e di libera iniziativa economica. Si potrebbe dire che se i diritti proprietari si trovano normalmente in una condizione di subordinazione rispetto al potere statuale di imposizione, questo tende a non valere più quando il prelievo assume una natura quasi-confiscatoria.
I detrattori di una progressività troppo spinta hanno invece sovente richiamato principi di efficienza dell’imposta (cioè, in breve, il rischio che aliquote elevate inneschino l’effetto sostituzione: se sul reddito marginale vengo tassato con aliquote molto elevate, potrei decidere di non lavorare) e il carattere “meritato” degli elevati guadagni, che il loro titolare ha prodotto ed ha il diritto di godersi. Quest’ultima argomentazione sottende una sorta di controlimite che, da un certo punto in poi, si contrappone all’incidenza del prelievo fiscale, come dimostrano i tentativi di costruire una teoria costituzionale dei limiti massimi all’imposizione fondandola sui diritti di proprietà e di libera iniziativa economica. Si potrebbe dire che se i diritti proprietari si trovano normalmente in una condizione di subordinazione rispetto al potere statuale di imposizione, questo tende a non valere più quando il prelievo assume una natura quasi-confiscatoria.
Il consenso all’approvazione di un’elevata tassazione dei “ricchi”, secondo gli autori di Taxing the Rich, si sarebbe tuttavia affermato soltanto in ben precise circostanze, cioè quando è stato possibile chiamare in causa la teoria compensatoria dell’imposta. Alla fine del XIX secolo, si trattava di una compensazione endogena ai sistemi tributari, connotati da una elevata incidenza delle imposte indirette, che, gravando in misura maggiore sulle persone meno abbienti, determinavano un effetto regressivo: per controbilanciare tale effetto furono introdotte o rese più incisive le imposte dirette, e quella sul reddito in particolare, facendole gravare sui titolari di redditi più elevati. Basti qui richiamare, a mo’ di esempio, il dibattito che ebbe luogo negli Stati Uniti (su cui vedi il bel libro di Mehrotra), o, mezzo secolo più tardi, le dichiarazioni in seno alla nostra Assemblea costituente: il principio di progressività inserito in Costituzione intendeva bilanciare il carattere regressivo di un sistema a quell’epoca connotato da una elevata incidenza delle imposte indirette.
Ma è stato solo con i due conflitti mondiali del XX secolo che l’argomento “compensatorio” ha raggiunto una sufficiente base di consenso in grado di supportare sul piano sociale e politico un drastico innalzamento delle aliquote marginali sui più ricchi, fino a livelli (in alcuni casi di oltre il 90 per cento) in precedenza inimmaginabili. La mobilitazione di massa delle due guerre mondiali, e gli enormi sacrifici che gli Stati belligeranti richiedevano ai propri cittadini-lavoratori (il servizio militare è del resto un tributo in natura), non poteva tradursi in un vantaggio per i più ricchi, titolari di capital income, che avrebbero oltretutto approfittato di inaspettati e immeritati guadagni dovuti all’economia di guerra. Da qui le excess profits taxes e le war profits taxes (anche nel nostro Paese ci fu una “imposta sui profitti di guerra”, dal carattere confiscatorio), nonché l’efficace immagine della conscription of wealth (una “leva obbligatoria per il capitale”), e il conseguente utilizzo compensatorio dell’imposta progressiva sul reddito e sulle trasmissioni ereditarie.
Si potrebbe a prima vista pensare che tutto questo fu in realtà dovuto alle enormi esigenze di finanziamento degli Stati impegnati nei conflitti bellici, ma ciò - osservano gli autori di Taxing the Rich - non è in effetti in grado di spiegare perché si decise di far ricadere così pesantemente l'onere della tassazione soltanto su una piccola minoranza di soggetti, cioè quelli più abbienti.
Anche se le elevatissime aliquote che quasi tutti gli Stati introdussero durante i conflitti mondiali rimasero per un po’ di tempo in vita anche successivamente in tempo di pace (un po’ perché l’argomento compensatorio poteva ancora essere utilizzato, anche se andava via via sfumando, un po’ perché tali aliquote erano diventate lo status quo), le stesse hanno poi avuto un andamento decrescente, a partire dai primi anni ottanta del XX secolo.
Se si devono dunque trarre delle indicazioni per il futuro da quanto accaduto nel passato, si potrebbe ritenere che non vi siano molte possibilità di rivedere le elevatissime aliquote sugli individui più abbienti che connotarono i contesti bellici del XX secolo, a meno che - ma nessuno ovviamente se lo augura - non si tornino a combattere guerre di massa, con mobilitazione di tutta la popolazione, oppure, in alternativa, non si riaffaccino altri argomenti “compensatori” di elevata persuasività argomentativa, capaci di orientare le opinioni pubbliche e le decisioni politiche.
Non sembra dunque sufficiente far leva sulle “disuguaglianze distributive” (come ritengono ad esempio Stiglitz, Atkinson o Piketty) per giustificare la reintroduzione di aliquote fortemente progressive sui redditi più elevati (nell’ordine, per intenderci, del 70-80 per cento) o sui patrimoni. Occorrerebbe infatti dimostrare che tali disuguaglianze, dal lato dei top incomes, sono sempre il frutto di rendite di posizione, guadagni immeritati e privilegi, e che lo sono per effetto di un’azione dei poteri governativi o di una sistematica distorsione dei meccanismi di mercato, il che mi sembra assai difficile da dimostrare.
Ma è stato solo con i due conflitti mondiali del XX secolo che l’argomento “compensatorio” ha raggiunto una sufficiente base di consenso in grado di supportare sul piano sociale e politico un drastico innalzamento delle aliquote marginali sui più ricchi, fino a livelli (in alcuni casi di oltre il 90 per cento) in precedenza inimmaginabili. La mobilitazione di massa delle due guerre mondiali, e gli enormi sacrifici che gli Stati belligeranti richiedevano ai propri cittadini-lavoratori (il servizio militare è del resto un tributo in natura), non poteva tradursi in un vantaggio per i più ricchi, titolari di capital income, che avrebbero oltretutto approfittato di inaspettati e immeritati guadagni dovuti all’economia di guerra. Da qui le excess profits taxes e le war profits taxes (anche nel nostro Paese ci fu una “imposta sui profitti di guerra”, dal carattere confiscatorio), nonché l’efficace immagine della conscription of wealth (una “leva obbligatoria per il capitale”), e il conseguente utilizzo compensatorio dell’imposta progressiva sul reddito e sulle trasmissioni ereditarie.
Si potrebbe a prima vista pensare che tutto questo fu in realtà dovuto alle enormi esigenze di finanziamento degli Stati impegnati nei conflitti bellici, ma ciò - osservano gli autori di Taxing the Rich - non è in effetti in grado di spiegare perché si decise di far ricadere così pesantemente l'onere della tassazione soltanto su una piccola minoranza di soggetti, cioè quelli più abbienti.
Anche se le elevatissime aliquote che quasi tutti gli Stati introdussero durante i conflitti mondiali rimasero per un po’ di tempo in vita anche successivamente in tempo di pace (un po’ perché l’argomento compensatorio poteva ancora essere utilizzato, anche se andava via via sfumando, un po’ perché tali aliquote erano diventate lo status quo), le stesse hanno poi avuto un andamento decrescente, a partire dai primi anni ottanta del XX secolo.
Se si devono dunque trarre delle indicazioni per il futuro da quanto accaduto nel passato, si potrebbe ritenere che non vi siano molte possibilità di rivedere le elevatissime aliquote sugli individui più abbienti che connotarono i contesti bellici del XX secolo, a meno che - ma nessuno ovviamente se lo augura - non si tornino a combattere guerre di massa, con mobilitazione di tutta la popolazione, oppure, in alternativa, non si riaffaccino altri argomenti “compensatori” di elevata persuasività argomentativa, capaci di orientare le opinioni pubbliche e le decisioni politiche.
Non sembra dunque sufficiente far leva sulle “disuguaglianze distributive” (come ritengono ad esempio Stiglitz, Atkinson o Piketty) per giustificare la reintroduzione di aliquote fortemente progressive sui redditi più elevati (nell’ordine, per intenderci, del 70-80 per cento) o sui patrimoni. Occorrerebbe infatti dimostrare che tali disuguaglianze, dal lato dei top incomes, sono sempre il frutto di rendite di posizione, guadagni immeritati e privilegi, e che lo sono per effetto di un’azione dei poteri governativi o di una sistematica distorsione dei meccanismi di mercato, il che mi sembra assai difficile da dimostrare.
venerdì 9 dicembre 2016
Referendum consultivo per uscire dall’Euro, l’ipotesi dell'irrealtà
In questi giorni è tornata alla ribalta l’idea del referendum consultivo sull’ipotesi di uscita dall’euro, rilanciata da alcune forze politiche.
Evidentemente queste ritengono che il fatto che l’art. 75 Cost. menzioni soltanto il referendum abrogativo, non sia di ostacolo alla proposizione di un referendum con valore consultivo. Se la Costituzione non prevede un referendum di questo tipo, d’altra parte non lo vieta. Con legge ordinaria si potrebbe dunque indire un referendum consultivo, che non avrebbe valore giuridico vincolante per il Parlamento, ma soltanto un significato politico, orientando le decisioni future dell’organo legislativo, un po’ come accaduto con il referendum sulla Brexit.
Evidentemente queste ritengono che il fatto che l’art. 75 Cost. menzioni soltanto il referendum abrogativo, non sia di ostacolo alla proposizione di un referendum con valore consultivo. Se la Costituzione non prevede un referendum di questo tipo, d’altra parte non lo vieta. Con legge ordinaria si potrebbe dunque indire un referendum consultivo, che non avrebbe valore giuridico vincolante per il Parlamento, ma soltanto un significato politico, orientando le decisioni future dell’organo legislativo, un po’ come accaduto con il referendum sulla Brexit.
Tuttavia, ad un più attento esame questa visione si rivela semplicistica. Nelle discussioni all’Assemblea costituente, l’opzione del referendum consultivo venne esaminata ma espressamente esclusa. Mortati riteneva che il referendum consultivo si dovesse scartare, "perché il popolo, essendo il più qualificato organo politico dello Stato democratico, non potrebbe non vincolare, data l'autorità inerente alle sue pronunce, le quali solo apparentemente si potrebbero chiamare pareri”. Il Presidente dell’Assemblea, Terracini, aggiungeva che "il referendum consultivo avrebbe anche conseguenze gravi, in quanto obbligherebbe la Camera a sciogliersi se il risultato fosse contrario, perché dovrebbe ritenersi che essa non rispecchiasse più la maggioranza della Nazione. Ritiene che si possa decidere — senza arrivare ad una votazione — sull'opportunità di non considerare, nella Costituzione, il referendum consultivo”. Nella presentazione del progetto alla Commissione, Mortati ribadì di aver "escluso qualsiasi caso di referendum consultivo per la ragione, già altre volte da lui esposta, che il popolo non è un organo consultivo”. Si temeva cioè un cortocircuito tra popolo e assemblee legislative rappresentative; inoltre, se la sovranità risiede nel popolo, sarebbe stato poi contraddittorio ammettere che la sua volontà, espressa attraverso un referendum, non avesse poi valore vincolante e cogente, con conseguenze sul piano istituzionale. L’idea era insomma che il referendum consultivo avesse comunque un significato giuridico, e non soltanto politico, e che avrebbe alterato i meccanismi della democrazia parlamentare rappresentativa, rischiando di esautorare le Camere dai loro poteri. Si pensi del resto a quanto sta accadendo in Gran Bretagna a seguito del referendum sulla Brexit e della pronuncia dell’High Court sulla necessità di una delibera parlamentare, vista dai media britannici come un attentato alla sovranità del popolo, che si è già espresso e la cui volontà non potrebbe più essere disattesa.
Anche per la nostra Corte Costituzionale, del resto, pronunciatasi con sentenza n. 118/2015 sulla legge della regione veneto che istituiva un referendum su temi connessi all’indipendenza o alla richiesta di maggiore autonomia, " è giuridicamente erroneo equiparare il referendum consultivo a un qualsiasi spontaneo esercizio della libertà di manifestazione del pensiero da parte di più cittadini, coordinati tra loro. Il referendum è uno strumento di raccordo tra il popolo e le istituzioni rappresentative, tanto che si rivolge sempre all’intero corpo elettorale (o alla relativa frazione di esso, nel caso di referendum regionali), il quale è chiamato ad esprimersi su un quesito predeterminato. Inoltre, anche quando non produce effetti giuridici immediati sulle fonti del diritto, il referendum assolve alla funzione di avviare, influenzare o contrastare processi decisionali pubblici, per lo più di carattere normativo. Per questo, i referendum popolari, nazionali o regionali, anche quando di natura consultiva, sono istituti tipizzati e debbono svolgersi nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione o stabiliti sulla base di essa.
Dunque, diversamente dalla possibilità di referendum regionali di tipo consultivo, ammessi dall’ampia formula dell’art. 123 Cost. e dagli statuti regionali, un referendum consultivo nazionale non sembra compatibile con l’attuale assetto costituzionale, almeno se si vuole assegnare un peso alle decisioni assunte dall’Assemblea costituente e allo spirito sottostante all’art. 75. Nel precedente del 1989, del resto, la richiesta di un referendum consultivo sul tema della costituzione europea venne approvata con legge costituzionale.
Anche per la nostra Corte Costituzionale, del resto, pronunciatasi con sentenza n. 118/2015 sulla legge della regione veneto che istituiva un referendum su temi connessi all’indipendenza o alla richiesta di maggiore autonomia, " è giuridicamente erroneo equiparare il referendum consultivo a un qualsiasi spontaneo esercizio della libertà di manifestazione del pensiero da parte di più cittadini, coordinati tra loro. Il referendum è uno strumento di raccordo tra il popolo e le istituzioni rappresentative, tanto che si rivolge sempre all’intero corpo elettorale (o alla relativa frazione di esso, nel caso di referendum regionali), il quale è chiamato ad esprimersi su un quesito predeterminato. Inoltre, anche quando non produce effetti giuridici immediati sulle fonti del diritto, il referendum assolve alla funzione di avviare, influenzare o contrastare processi decisionali pubblici, per lo più di carattere normativo. Per questo, i referendum popolari, nazionali o regionali, anche quando di natura consultiva, sono istituti tipizzati e debbono svolgersi nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione o stabiliti sulla base di essa.
Dunque, diversamente dalla possibilità di referendum regionali di tipo consultivo, ammessi dall’ampia formula dell’art. 123 Cost. e dagli statuti regionali, un referendum consultivo nazionale non sembra compatibile con l’attuale assetto costituzionale, almeno se si vuole assegnare un peso alle decisioni assunte dall’Assemblea costituente e allo spirito sottostante all’art. 75. Nel precedente del 1989, del resto, la richiesta di un referendum consultivo sul tema della costituzione europea venne approvata con legge costituzionale.
Detto questo, ancor meno percorribile appare l’idea di un referendum consultivo - indetto da una legge ordinaria - sull’euro o l’unione europea, cioè su trattati internazionali, dato che per essi l’art. 75 contiene una espressa esclusione. E’ vero che questa si riferisce, com’è ovvio, all’unica forma di referendum ammessa (quello abrogativo), ma non c’è dubbio che una consultazione popolare su materie sottratte all’iniziativa referendaria di tipo abrogativo eserciterebbe, surrettiziamente, una fortissima pressione politica sulle Camere, inducendole ad assecondarne gli esiti o a sciogliersi: la volontà costituente di sottrarre determinate materie a consultazione popolare ne risulterebbe aggirata. Non è un caso, del resto, che negli statuti regionali che prevedono il referendum consultivo, questo venga escluso negli stessi casi in cui è escluso quello abrogativo (cioè in materia di tributi, leggi di bilancio, trattati internazionali, etc.).