martedì 9 aprile 2019

Progressività, flat tax e scelta dell’unità impositiva (individuo o famiglia)

Le imposte ad aliquote progressive, come l’Irpef, pongono una serie di problemi di non facile soluzione con riguardo alla scelta dell’unità impositiva. Se infatti il soggetto passivo del tributo è individuato – come oggi accade – nella singola “persona fisica” cui vengono imputati i redditi posseduti, si creano nell’ambito dei nuclei familiari situazioni potenzialmente molto distorsive. A parità di reddito complessivo familiare, vengono infatti penalizzate le famiglie monoreddito, rispetto alla situazione di coppie sposate in cui entrambi i coniugi lavorano: a parità di reddito familiare, le famiglie in cui entrambi i coniugi lavorano godono infatti di una minor tassazione, dovuta alle minori aliquote progressive applicabili su ciascun reddito.  
Per sopperire a questo stato di cose, alcuni ordinamenti prevedono uno splitting legale dei redditi e l’applicazione, sulle singole quote risultanti, dell’aliquota corrispondente ai diversi redditi così “normalizzati”. Altri ordinamenti (come quello francese) prevedono invece l’istituto del “quoziente familiare”, che comporta uno splitting corretto con dei coefficienti, per ottenere una scala di equivalenza e adattare la capacità contributiva alla situazione socio-demografica della famiglia. In questi Paesi nel concetto di “famiglia” in senso fiscale rientra non solo la famiglia “legale” ma anche la coppia di fatto.
Entrambi questi sistemi (splitting o quoziente familiare), tuttavia, generano un disincentivo al lavoro nei confronti del secondo coniuge (di solito, la moglie), posto che il reddito guadagnato da quest’ultimo finisce per scontare (con lo splitting o il quoziente) un’aliquota più elevata di quella che sarebbe applicabile stand alone.
Il nostro ordinamento odierno, al contrario, non prevede alcun istituto riconducibile all’idea dello splitting o del quoziente familiare, e la “dimensione” impositiva della famiglia entra in gioco soltanto sotto profili limitati, ad esempio attraverso l’attribuzione di detrazioni per carichi di famiglia (attraverso il concetto del “familiare a carico”).
Agli albori dell’Irpef vi fu una considerazione unitaria della famiglia, attraverso il cosiddetto “cumulo” dei redditi: il reddito della moglie era attribuito al marito, sulla base della presunzione secondo cui quest’ultimo ne avrebbe avuto la disponibilità. Si generava così una distorsione, posto che il cumulo faceva scattare più elevate aliquote progressive, e una disparità di trattamento tra coppie sposate e coppie non sposate (a svantaggio delle prime), con evidente contraddittorietà rispetto alla soggettività passiva attribuita ai singoli individui e alla scelta di tassare in capo a un determinato soggetto (il marito) redditi di cui era titolare un diverso soggetto (la moglie). Il cumulo dei redditi, che creava un disincentivo al matrimonio e quindi paradossalmente penalizzava la famiglia, venne come noto a cadere a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della Corte (Corte Costituzionale, n. 179/1976). 
Scomparso da decenni il distorsivo cumulo dei redditi, l’attuale Irpef ad aliquote progressive, incentrata sugli individui (l’unità impositiva – cioè il soggetto passivo del tributo – è la singola persona, non la famiglia), incentiva oggettivamente fenomeni erosivi di splitting (anche con intestazioni “di comodo” di cespiti produttivi di reddito), che tuttavia potrebbero a loro volta essere visti come una “legittima difesa” rispetto alle distorsioni connesse al mancato riconoscimento del “quoziente” o dello splitting legale. E nei confronti di questi fenomeni (“erosivi” o “difensivi”, a seconda dei punti di vista), il legislatore reagisce con norme in senso lato antielusivo che rischiano a loro volta di eccedere rispetto agli obiettivi perseguiti, complicando il sistema (si pensi ad esempio al regime dell’impresa familiare e ai limiti dirigistici cui soggiace l’attribuzione di quote del reddito di impresa ai familiari dell’imprenditore, oppure alla indeducibilità dei compensi pagati dall’imprenditore per il lavoro prestato dal coniuge o dai figli)[1].
È invece evidente che con la flat tax, cioè un’imposta ad aliquota unica, le problematiche qui accennate vengono tendenzialmente meno: se l’aliquota formale è invariante rispetto all’entità del reddito posseduto, non fa alcuna differenza optare per la tassazione su base individuale, per il cumulo dei redditi o per lo splitting legale. La flat tax presenta dunque caratteristiche di maggiore “neutralità”: non penalizza, a parità di reddito familiare, le famiglie monoreddito rispetto alle altre (come accade nell’attuale sistema), non favorisce le famiglie con redditi elevati in cui entrambi i coniugi lavorano ma in cui vi sono forti differenziali retributivi (come accade con lo splitting), non crea disincentivi al lavoro per il secondo coniuge a basso reddito (come accade con lo splitting e il quoziente).
La scelta dell’unità impositiva (famiglia o singolo individuo) è dunque neutra, posto che tutti i redditi, indipendentemente da entità e possessore, sono comunque tassati con l’unica aliquota legale prevista. La dimensione e le caratteristiche della famiglia possono invece entrare in gioco nella modulazione dell’esenzione alla base, graduando cioè il minimo vitale esente da imposta in funzione delle necessità del nucleo, della sua numerosità, dell’eventuale presenza di soggetti “deboli” (minori di una certa età, soggetti anziani con disabilità, etc.), e di altre condizioni socio-demografiche, riproducendo nel particolare contesto le scale di equivalenza tipiche dei sistemi incentrati sul “quoziente familiare”. 
Una differenziazione della fascia esente in funzione delle esigenze e caratteristiche della famiglia sarebbe rispettosa dei principi costituzionali (per l’art. 29 della Costituzione, la Repubblica deve riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio), realizzando in fondo, sia pure attraverso una modulazione dell’importo della fascia esente, quanto già oggi accade in parte con le detrazioni/deduzioni per carichi di famiglia. E questa deduzione andrebbe agganciata al reddito complessivo del nucleo familiare, elevando la “famiglia” a soggetto passivo formale del tributo (salvi meccanismi di solidarietà tra i membri della famiglia nel pagamento del medesimo)[2].
In alternativa, potrebbe essere tenuta ferma la soggettività passiva dei singoli individui, ancorché avvinti da vincoli familiari. Ciascun membro della famiglia dovrebbe dichiarare il proprio reddito complessivo, e avrebbe diritto a una deduzione pari a una quota di quella spettante al nucleo, ottenuta dividendo la deduzione calcolata su base familiare per il numero dei componenti della famiglia percettori di redditi[3].
Previsioni del genere non dovrebbero come detto porre dei problemi di costituzionalità nemmeno considerando la “famiglia” come il soggetto passivo dell’imposta, in cui far confluire (con un “cumulo”) tutti i redditi posseduti dai vari membri della famiglia stessa. L’ammontare dell’imposta dovuta non verrebbe infatti a dipendere dall’essere la famiglia monoreddito o meno, dall’essere i diversi redditi posseduti dai suoi membri di diverso ammontare, e così via, stante l’unicità dell’aliquota. Nel caso si decida di considerare la famiglia, e non il singolo individuo, quale soggetto passivo d’imposta, diminuirebbe il numero delle dichiarazioni da presentare e da controllare, fermo restando che andrebbe introdotto un meccanismo di solidarietà nel pagamento dell’imposta anche nell’ipotesi di accertamento tributario. In alternativa, si potrebbe restare alla tradizionale identificazione dei soggetti passivi nelle singole persone fisiche, attribuendo il “surplus” di esenzione connesso alle caratteristiche socio-demografiche della famiglia secondo gli stessi criteri che oggi governano l’attribuzione delle detrazioni per carichi di famiglia, oppure spalmando la “deduzione familiare” sui contribuenti avvinti dal vincolo familiare.
Quanto alla definizione di “famiglia” in senso fiscale, la recente approvazione della legge sulle unioni civili dovrebbe consentire di estendere senza soverchie difficoltà anche ad esse la stessa tutela del “minimo vitale” prevista per le coppie legalmente sposate.


[1]Lo stesso “cumulo dei redditi”, dichiarato incostituzionale, rispondeva tra l’altro alla dichiarata esigenza di evitare intestazioni fittizie e di comodo dei redditi nell’ambito della famiglia per aggirare la progressività del tributo.
[2]La stessa Corte Costituzionale, nella parte finale della sentenza n. 179 del 1976, auspicava che “sulla base delle dichiarazioni dei propri redditi fatte dai coniugi, ed in un sistema ordinato sulla tassazione separata dei rispettivi redditi complessivi, possa essere data ai coniugi la facoltà di optare per un differente sistema di tassazione (espresso in un solo senso o articolato in più modi) che agevoli la formazione e lo sviluppo della famiglia e consideri la posizione della donna casalinga e lavoratrice”.
[3]In caso di incapienza in capo a taluni membri della famiglia si potrebbe consentire il godimento della deduzione in capo a un unico soggetto, come già oggi accade per la fruizione delle detrazioni per carichi di famiglia. In ogni caso, in una flat tax accompagnata da un’imposta negativa, il problema dell’incapienza non si porrebbe neppure.